Tagliolini di un viandante in maglietta rossa
“Vieni, vieni; chiunque tu sia, vieni. Sei un pagano, un idolatra, un ateo? Vieni! La nostra casa non è un luogo di disperazione e, anche se hai tradito cento volte una promessa, vieni!”
(quartina di Jalal alDin Rumi, 1207-1273, esposta all’ingresso della sua dergah)
28/07/04 h. 9.54 – Preludio: sedile macchiato del Malpensa Express, Stazione Cadorna
Dannato Scamoggi! Da quando ti ho conosciuto, là, su quella pellicola in bianco e nero, dove pretendevi di essere il più rosso dei rossi, mi hai condannato alla tua stessa sorte. E non c’è Don Camillo che tenga! Anch’io sto per partire, anch’io sto per abbandonare un frammento del mio cuore, che solo non batte per giunta.
Come il Sole splende nella Luna, così ogni maliziosa verità lascia trapelare un segreto doppio, tanto caro quanto più mi fugge. Dove mai me ne andrò, ora che so, ora che le mie labbra sono state fuggevolmente lambite e la mia carezza si è riempita di un’innocenza che non è più tale? Il vento è davvero girato ad ovest? E sia, ma lo raggiungerò da Levante!
Voglio solo veder sorgere un’alba imperitura, voglio che non ci siano mai più addii nella mia lunga marcia…e se pure un giorno dovessi realizzare che quell’ovest è la mia fine, voglio guardarlo in faccia con la certezza di avere ancora il cuore di un fanciullo e il sorriso beato di un cieco.
Addio petali in fiore, vi ritroverò ancora, ma sarà ormai una stagione nuova…
31/07/04 h. 12.48 – all’ombra del Mamaev Kurgan, Stalingrado
Gradino dopo gradino, cadavere su cadavere, l’Unione Sovietica vide sorgere dalla collina 102 la Grande Madre Patria. Spettacolo titanico che sfida i cieli, dilania il rimorso e vorrebbe forse calpestare quelle schiere di sposini dal sorriso troppo facile, pronte a sacrificare il proprio bouquet, pur di sentirsi in pace con la coscienza.
Figli sciagurati! Mentre i loro nonni morivano come insetti sotto gli ordini di Mosca, falcidiati fra le rovine di una città divenuta Fenice, loro già pensavano all’ultimo tradimento, quello più odioso perché concepito non dal nemico, ma da chi più si ama. A che serve preservare la memoria di un mondo che più non esiste oltre quella spada sguainata, pietrificata nell’aria, a monito di una battaglia vinta sì sul campo, ma persa nel tempo? Ah, quanto simile m’appari ad un grottesco Don Chisciotte, o Madre senza più voce!
Nessuno ha più occhi per l’invalido che si vergogna di elemosinare sotto il tempio della sua gloria, per il compagno d’armi, che tampona lacrime di fatica sotto il cappello della matricola accecata dai flash, per la luna che sbianca d’orrore sulla steppa insanguinata!
Onore ai tuoi caduti, vecchia Unione Sovietica, bella e gloriosa nelle tue camere sterili, sbattuta come una puttana nel giorno degli omuncoli!
04/08/04 h. 13.00 – da una cuccetta in disordine. Astrakan
Astrakan è apparsa e si è dissolta con la stessa rapidità con cui ho divorato il biscotto al burro appena offertomi dalla Provodnitza; piacere puro, ma dal fulmineo orgasmo. Impossibile amalgamare in un’unica pasta il bianco terrore del Cremlino all’urlo ancora echeggiante dell’Orda d’Oro e le fiamme di passione che il tramonto imporpora sul Volga, il profumo del Loto che schiude la mente in un delta non più vergine e la malizia di ragazze perse a rincorrere sogni d’oltrefrontiera.
Eppure tutto questo è stato; friabile famelicità della vita di porto, che trasforma i ricordi in zuccherini da lasciare in pasto ai nostalgici: ai nonnini che sventolano le rosse insegne staliniane piangendo canzoni dimenticate, così come ai parà mezzi brilli, che sciolgono la rabbia di gloria sotto il monumento dei loro irraggiungibili caduti…e diciamolo, diamine: anche ai pendolari vagabondi che fanno gli sciupafemmine con la Tatjana di turno e poi nascondono gli occhi al loro inconsolabile bacio d’addio.
Non c’è tempo per assaporare; non c’è tempo per riflettere: o si parte o si accetta di cambiare; persino gli storioni da record non reggono la prova dei tre giorni, perché qui il Volga ha impresso il suo corso alla storia: mille diramazioni, una sola foce. Che poi questa sia un’immensa lacrima salata chiamata Caspio, lasciamolo dire ai geografi. Per noi è solo quell’invisibile goccia che si frappone fra labbra ansimanti fugaci promesse. Promesse di porto. Promesse da marinaio.
07/08/04 h. 10.24 – muretto dell’abbindolatore. Parco urbano Amur Timur
I proclami del presidente Kharimov, monopolista del gigantismo pubblicitario uzbeko, non sanno più a che lingua appellarsi. Invocano un’immaginaria unità nazionale, una stantia corsa verso la società dei consumi, ma la nomenclatura delle strade appartiene agli eroi di una rivoluzione ormai estranea. Troppo caro è costato l’atto di ribellione alla vecchia patria sovietica e la bigotta dedizione che infiamma i bazar di Chorsu, dove per le donne diviene sempre meno consono passeggiare sole o rivolgere la parola agli stranieri, spaventa più delle fantasie geopolitiche di Stalin o del terremoto del ’66, che della città lasciò solo le polveri e lo squallido monumento di piazza Sharaf Rashidov. Uno che, ai terremoti, preferiva indubbiamente la cancrena della Stagnazione.
Esiste ormai una sola famiglia, ma non è più quella dei baroni rossi, degli amici di Breznev che dispensavano baci più viscidi di Giuda, bensì l’Islam appassionato di musica turca, letterati iraniani e, soprattutto, dei battesimi in grado di far piazza pulita di ogni passato. Si allungano le ombre fra le gelide prospettive slave di Tashkent, ma la falce di un tempo assomiglia ormai troppo ad un’impietosa mezzaluna.
08/08/04 h. 20.08 – sotto un lampioncino sbiadito. Samarcanda
Sdrastvui. Hello. Buon Giorno. Non c’è dunque modo di essere stranieri in questa leggendaria Babele d’Asia, così a lungo vagheggiata nei secoli ed oggi terribilmente a portata di mano? Dove mai sei finita, oh misteriosa Samarcanda, città dalle maioliche in fiore e dai profumi di montone arrostito?
Scintillante, nel suo impeccabile restauro, il Registan si è chiuso in un silenzio metafisico degno delle più perfide macchinazioni di Tamerlano; gli sbalzi cromati delle madrase e delle moschee ammiccano troppo sfacciatamente ai som svalutati; nei bazar degli allibratori si vende Pepsi contraffatta, mentre le nobili vesti blu oro degli sposi uzbeki invecchiano sugli appendini senza più ganci assistenzialisti.
Ma in fondo, non sei sempre stata un’ambigua promessa dal volto simile a quello del doppio Rashidov? Quanti artisti, ingegneri e poeti si lasciarono ingannare dai tuoi sfarzi, prima di finire sotto la sciabola capricciosa dei tiranni di turno?
So che sei nascosta dietro gli angoli delle vie sterrate, gelosamente rintanata in quei bianchi cortili da cui occhieggiano gli anziani, dalle folte barbe e dai berretti in pizzo; sì, sei negli sguardi ammaliati delle ragazzine, che sbirciano dalle porte intagliate, sei nel sorriso dell’Imam che ama attardarsi fra i suoi accoliti con la mano al cuore, sei nello sbadiglio del venditore d’anguria che non si preoccupa del domani, sei nel lamento del muezzin, che muore impercettibilmente nell’oscurità della memoria…per cui non dirmi chi sono. Chiedimi solo da dove vengo. Basta e avanza per sognare ancora.
10/08/04 h. 14.58 – dove Gengis Khan cedette lo passo. Minareto Kalon, Bukhara
“Vive la France!”. Quindi un’esplosione per sovraccumulo di plov e pomodorini fatali. Addio Adrian, eroico compagno di mensa, stroncato da una ciotolina di troppo.
Più di duecento anni fa toccò ai poveri emissari di Sua Maestà sottostare alle impietose torture dell’emiro Nasrullah Khan, noto ai più come “il macellaio”, oggi è la volta della nostra strana sortita franco-italiana. Per chi è cresciuto a pane e rivoluzione, Bukhara appare sin troppo sorniona ed astuta: abbindola con le sue vesti di seta blu, incanta con l’oro intarsiato dei suoi mercati coperti, ma non vive di giorno; attende il tramonto per uscire in strada, quando la luce si corrompe e le macchie si occultano.
Da secoli non ha più forza per dettare legge, eppure non rinuncia all’etichetta: qui siamo ospiti, è vero; una tavola sfarzosa è stata addirittura imbandita per noi, ma quanto scoccia ai nostri cuochi ammettere che tanto ben di Dio è solo frutto del nostro portafoglio! Forse ci fanno mangiare così tanto per tapparci la bocca, per ostentare un’opulenza irreale ed arcana quanto i racconti degli oppositori sovietici. Basterebbe fare due passi lungo la dimora kitsch dell’ultimo signore della città, per capire quale sottile masturbazione dispensavano gli specchi nascosti attorno alla piscina dell’harem: dietro i cuori delle finestre e le cornici di pizzo, nient’altro che corpi nudi, proprio come dietro le promesse dei bimbi all’ombra del minareto Kalon.
Per strada o nella storia si può mercanteggiare sinché si vuole, sbizzarrirsi nell’euforico gioco del rilancio, pur di piazzare un bel souvenir; ma resta sempre e comunque un piacere malsano. Il piacere del compromesso, che non soddisfa nessuno e lascia al massimo in mutande.
11/08/04 h. 19.14 – Porta del tramonto. Khiva
Non c’è traccia di sangue sulla piazza dell’Ark; non si vedono tamburi cuciti assieme con la pelle del povero diplomatico Bekovitch, né tanto meno le orbite dei prigionieri che vennero fatte rotolare per terra dalla sciabola di un sadico boia, ma le torture di Khiva non sono ancora finite. Un sole impietoso batte in ogni più sperduto vicolo della cittadella e lontano dalle pastose mura di sabbia si apre solo l’arido deserto: ancora una volta bisogna soffrire le pene dell’Inferno per accedere ai tesori di questa remota escrescenza selgiuchide, arroventata dai forni in cui le donne grinzose mettono a cuocere pani impolverati ed appetiti taciuti. Persino i minareti variopinti non riescono a farsi specchio dell’umiltà dei cieli, ma si protendono verso l’infinito con la stessa stolida intransigenza dei vecchi tiranni. Si sentono padroni di spazi immensi, ma sono solo giganti di fango, il cui orgoglio è oggi piegato ai capricci di un nuovo e più temibile generale Kaufmann: il volgare turista in bermuda, che si aggira ignaro delle castigate leggi islamiche e si compiace di una città ridotta all’incartapecorita grazia di un museo all’aperto. Un favoloso museo senz’anima…ma come farne una colpa? Ebbero mai anima gli abitanti di Khiva? Si pensavano padroni del Khorezem, ma non erano che schiavi dell’ignoranza di un’oasi…più maligna di così non potevi essere, Khiva!
15/08/04, h. 15.41 – panchina rossa del Parco Panfilov. Bishkek
Nonostante ammicchi ad Ovest, Bishkek resta in realtà un grande accampamento di cacciatori che hanno sostituito alle pelli delle loro yurta le certezze del cemento. Può così affannarsi il solerte presidente Akaev a concedere basi militari a destra e a manca, o a riempire i suoi magazzini di stato con mercanzia dai dubbi marchi. Piazza della Vittoria lo sbugiarda dalla mattina alla sera, perché neppure da morti ci si riesce a liberare dell’abbraccio delle tende, persino se si è stati eroi sovietici. Sarà per questo che, al di là di rivolgimenti e capitomboli, negli occhi dei kirghisi manca la paura del vuoto: sotto i doppiopetto un po’ lisi, o sotto le scarpe tirate a lucido dai bimbi di strada, trasudano spiriti troppo semplici per atteggiarsi a veri cittadini di mondo, spiriti pronti a sgozzare anche un topo per sfamarsi, che sanno trovare una ragione per tutto; anche se, alla fine, non si rivela poi quella giusta. Non si arrabbi troppo l’egocentrico Lenin, finito alle spalle del museo nazionale dopo una vita spesa in piazza. Né se la prenda a male il compagno Frunze, costretto in nostalgiche bacheche dopo aver riempito di sé la bocca dei geografi. Magari torneranno buoni: la gente di montagna non butta via mai niente. Caso mai ricicla.
16/08/04, h. 14.37 – in compagnia dei Balbal. Burana (atto d’accusa)
Che avete da guardare, morte steli d’evi misteriosi? Cosa mai troverete di ridicolo negli uomini d’oggigiorno, per ostentare un sorriso tanto beffeggiante ed irremovibile? Forse noi mortali non siamo alla vostra altezza, non siamo degni di calcare questo suolo di aspre erbacce e ciottoli taglienti, dove il vostro sacrificio si consumò in nome d’ideali che il tempo ha imbastardito? E’ vero, nelle mie vene non scorre il sangue di alcuna venerata tribù; non ho cavalli da bardare, né colorate yurta da montare. Eppure sono qui, migliaia di chilometri lontano dalla mia terra, solo come le aquile che voi amavate contemplare sullo sfondo del Tien Shan, quelle inarrivabili Montagne Celesti che vi hanno preservato dalla storia e che i vostri segreti sciamani dicono siano state create apposta per voi dagli dei.
Anch’io oggi, mi sono conquistato un barbaglio d’eternità, perché oltre il vostro muto stupore vedo dischiudersi steppe battute dal vento. Ed oggi, proprio oggi, miei cari, quel vento sono io; voi, nient’altro che sassi per piagnistei e incomprensibili preghiere!
17/08/04, h. 13.56 – da una roccia instabile. Cholpon Ata (contraccusa)
A furia di scorrere petroglifi, si finisce per diventare gelosi delle capre. Non c’è niente da fare: gli eroi di un tempo se ne sono davvero andati, persi nella grigia anonimia dei deserti di pietre, mentre questi quadrupedi cornuti osano aggirarsi fra le loro spoglie con fare baldanzoso, quasi avessero coscienza del fatto che la storia abbia preservato le gesta sole di quanti sfuggirono alle lance dei cacciatori. Che i loro aguzzini fossero Sciti o proto-kirghisi, che fossero vissuti 500 anni prima di Cristo o 100 dopo, oggi ben poco conta: le staccionate sono rotte, i sentieri non più interdetti e l’orgoglio delle steppe è dato in pasto all’erbacce. E per quanto ci si sforzi di dar ragione ai nostri rudi predecessori, trasformando in un museo pretenzioso quel che di fatto è solo un cumulo di sassi sfregiati, nulla riuscirà a cancellare lo sberleffo di una torta maleodorante su epigrafi sbiadite.
Meglio andare a sciacquarsi nelle dolci acque dell’Issik-Kul, da cui usciremo nudi e un po’ più umili.
20/08/04, h. 6.49 – riva sinistra del lago Song Kol
Un sonno ben più profondo blandisce il lago Song Kol, a dispetto dei pesanti respiri che fanno frusciare l’erba ed estinguono i focolari. La vereconda meraviglia dell’alba, che tinge le sue acque di femminei pudori, è quanto di più scontato la terra possa offrire. Un nomade non riesce a capire lo stupore per qualcosa che da sempre è così; l’anomalia siamo noi, schiavi d’invisibili catene e dai sensi intossicati. Siamo noi ad aver perso il senso della misura; o meglio, ad aver costretto l’infinita misura dell’uomo al bieco metro del possibile. Ogni realtà soggiace alla legge dell’imponderabile, all’illimitatezza dell’orizzonte: la meraviglia, semmai, non è nel colore dell’alba, ma nel suo ritorno, giorno dopo giorno. E quel sorriso che ti accoglie al rientro da una camminata avara di parole, ma prodiga di rugiada, ha in sé la gioia di chi ha finalmente preso al guinzaglio il suo fuggevole pane quotidiano.
Così è l’amore in paradiso: un’anima che scalpita a cavallo, in cieca attesa di un lazzo: morbido bacio qualora vada a segno; impietosa frustata se lanciato fuori tempo. Frustata cui nessun kymul apparirà più sferzante e salato, una volta stillata la peccaminosa lacrima della conoscenza.
22/08/04, h. 17.17 – sentiero senza sbocco, Tash Rabat
Non un passo oltre. Scegliere di fermarsi non è semplicemente un atto di umiltà ed ogni caravanserraglio che si rispetti lo testimonia da secoli immemori.
Ma sì, resta lontana Kashgar, favoloso mercato di questa cangiante Via della Seta, le cui meraviglie neppure Marco Polo riuscì a far credere. Perché in fondo ognuno di noi desidera struggersi e sospirare perdutamente, fra le profumate spoglie dell’amata, bussando alle porte dell’ultimo deserto, invocando i Tartari piuttosto che gli Uiguri…insomma, concedeteci almeno uno spazio vuoto, uno spazio senza nome da colmare d’attesa e pazienza, un interrogativo che inquieti al di là di ogni possibile domanda. Inaccessibile, proprio come i picchi Lenin o Vittoria, inutilmente insidiati da colonne d’alpinisti che non si accorgono d’insozzare il candore dell’innocenza con le loro piatte orme. Da secoli bramano d’ìnvenire la segreta scala per il Paradiso, ma come calcare una nuvola che dissolve nell’infinito?
Forse chiudendo gli occhi e lasciando che il nostro cuore calzi le ali di un insondabile anelito…
…e quando le gole ammutoliranno, quando le onde si faranno pietra, quando il vento solo resterà a sferzare i sogni, allora sì avremo davvero raggiunto la più timida delle vette. Saremo il vapore che si alza negli sbadigli dei giorni stinti, già in fuga verso oceani capovolti, pronti a sfumare nel piacere di un languido ricordo la roccia arida, ma non più intonsa. O saremo forse la nube alata, sospinta dall’imponderabile…e troppo ingenua per lambire le nude grazie della verità!
A metà strada fra il proposito e il passo, sospeso sul pungolo dell’allusione, l’ultimo gradino esalato dagli sbuffi dell’aurora dispiegherà infine il passaggio: è là, signori miei, riuscite a scorgerlo? E’ in quella valle remota, proprio laggiù, ove risuona ancora l’eco del nostro io perduto…
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