"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

martedì 31 agosto 2010

TRANSAHELIANA



Brigantino pirata n.1 - Porto Novo (24.07.2010)



Le ironie si sprecano. Chi scambia appositamente una n per una l. Chi fa notare l'oscena forma dei confini. Senza menzionare le barzellette sui neri, inevitabili fra i boy-scout in volo verso l'Africa e le sue missioni a doppia faccia. No. Il Benin non è "quel" tipo di Paese. Le paure freudiane che ci portiamo addosso devono essere ancora figlie dell'ultima sconfitta, perché l'uomo nero, qui, continua ad essere solo e paradossalmente il bianco. Quello che fà sobbalzare al sorgere dell'alba, quando furtivo si avvicina a due guardie dell'ambasciata libica in cerca di una sinistra Maison des Allemands. Quello che fa abbassare gli occhi altrui quando sgrana i propri su una famiglia di ciechi, mentre è intenta ad attraversare con passo titubante la strada saettata dalle moto impazzite. Quello che non puo' credere all'esplosione improvvisa di un taxi in coda sull'interstatale fra Cotonou e Porto Novo, dove i corpi carbonizzati sono premura d'improvvisati
fotografi con immancabile telefonino al seguito, eppur sprovvisti del numero dei pompieri o della croce rossa. Non si spiegherebbero altrimenti i volti arcigni e ostili sotto le tettoie dell'ex casa negriera Da Silva, dove capeggia una scritta a lettere cubitali che marchia come il fuoco: "la tratta degli schiavi é un crimine contro l'umanità": corpi appesi a cappi, sbranati alla gola da cani rabbiosi, stuprati con travi, soffocati nel fango, pannello dopo pannello sino al portone d'ingresso, su cui si annuncia per questa sera un'incredibile sfilata di moda delle bellezze beninesi, in festa per i 50 anni d'indipendenza del Paese. Non certo una defaillance. Solo la voglia di lasciarsi alle spalle uno stereotipo duro a morire, per reclamare davanti ai padroni di un tempo le meraviglie di un popolo capace di risorgere dalle proprie ceneri. In grado di dar vita, in un pugno d'ettari guadagnati un quarto di secolo fa da un padre illuminato, ad un'azienda
agricola oggi un modello sostenibile per ben 15 paesi dell'Africa Occidentale. E' vero: questa e' la vetrina del sud, giovane ed arrembante, che dimentica nella polvere i suoi palazzi afrobrasiliani, ma anche il culto degli avi e la vita amara del villaggio. I lanci di cauri ai piedi delle donne fon incinte, cosi' come dei cacciatori yoruba a corto di frecce. Le maschere geledé solcate da uccelli rapaci e i tamburi che sfondano i timpani. I mercati dove le zampe di gallina valgono assai piu' del latte contraffatto della Nestlé, o di una radio giapponese sopravvissuta ad un film di Bruce Lee.
Pascal, che fa sfoggio di un inglese perfetto fra i visitatori del gioiellino ecosostenile Songhai, non crede che l'uomo sia una canna. Non accetta supinamente il paternalismo di una cultura inoculata come un antivirus. Guarda il kalashnikov appartenuto al padre marxista e sbadiglia. La rivoluzione? Decisamente demodé. Internet gli promette oasi lontane e getta ponti ovunque il suo cuore palpiti. Poco importa sapere quanto siano solidi. Partire! Partire! Per tornare, c'é sempre tempo. Forse il sogno in cui crede é già sotto i suoi occhi, ma non riesce ancora a vederlo; proprio come la famigliola cieca che ciondola verso la sponda sbagliata.

Banane per tutti!
Il Cobra Verde

Brigantino pirata n.2 - Aguégué (25.07.2010)



Zac! Colto subito in fallo. La maledizione freudiana non ha mancato di colpire al primo indugio. Agile e scattante come un'antilope del Parc W, ieri ero incredibilmente riuscito a penetrare furtivo nel primo tempio voodoo incontrato a Porto Novo: una specie di cugino IT gigante, con lampadine rosse al posto degli occhi di bragia e un ciuffo ribelle a forma di quegli ombrellini tanto in voga al carnevale di Rio. Eccolo, il revenant dalle conchiglie ingarbugliate e dalla pancia apribile! E' il gioiello più prezioso che l'amministrazione della capitale abbia deciso di regalare ai suoi cittadini, ma l'accesso nel suo ventre é severamente interdetto almeno sino all'arrivo ufficiale del bokombo. L'inaugurazione avverra' solo il primo di agosto, in occasione del cinquantenario dell'Indipendenza. Avessero messo un cartello almeno! Qui le feste e gli appuntamenti sbucano d'improvviso da una via all'altra, proprio come i fatiscenti reperti del periodo coloniale
o l'incredibile moschea policroma sul Grand marché. Pubblicizzare avvisi non vale pero' la fatica in Benin: basta un bianco di passaggio, uno yovo, e qualunque cosa si stia facendo puo' tranquillamente essere interrotta per esplodere in una risata alla Eddie Murphy. Non che se ne contino molti in giro, anzi: le Sorelle che mi ospitano devono averne visto solo uno e per di più su un sussidiario cattolico, visto che continuavano a confrontare le immaginette col mio volto, dibattendo alacremente in dialetto yoruba. In citta' sara' stata la presenza di una ragazza americana giunta a lavorare per due anni al centro Songhai, perche' tutti si vantano di conoscere turisti francesi, tedeschi, yankee, ma dalle descrizioni paiono più attori di film hollywoodiani che viaggiatori alla deriva. In ogni caso le risa sguaiate si sono tramutate in un attimo in urla ancestrali, i machete sono volati in cielo e le capre hanno preso a zampettare terrorizzate: guai a chi
punta la macchina fotografica su un feticcio! Diversamente da quanto capita ad Haiti, ogni elemento dei corredi voodoo fa sempre rima con taboo: toccarlo, sfiorarlo, occhieggiarlo, puo' costare una mano mozzata o il rantolo di una donna strangolata dalle convulsioni.
Ora sono dunque tenuto a vista ancor più di quanto lo fossi all'arrivo, tant'è che i locali hanno coniato un nomignolo che sospetto velatamente dispregiativo: un suono a metà fra pupù e jojo'. Nessuna sorpresa, allora, se ieri sera la rappresentazione di danze e canti popolari nel vecchio palazzo del re di Porto Novo sia cominciata solo con quattro ore di ritardo: essendo l'unico spettatore, affiancato dalla solita americana dal sorriso sincopato, non si sono sentiti sicuri sino all'arrivo della terribile guardia di Abomey. Gente tosta: dici ta ta e ti ritrovi a metà. Quando lo show ha poi avuto inizio, dev'essersi adirato pure lo spirito del revenant: black-out fulminante. Attorno, solo tenebre prese a pugni da tam tam ossessivi e liquefatte dagli afrori di contorsionisti con occhi ad infrarosso.
Per fortuna l'atmosfera si è rivelata più serena alla sfilata di moda nel vicino museo Da Silva, dove le continue rivendicazioni degli stilisti locali hanno pero' infuso al tutto un tocco grottesco: volendo dimostrare agli assenti padroni bianchi di esser ormai capaci di gusto ed eleganza, strane divise da maggiordomo vittoriano e improbabili cappellini Elisabetta II hanno affollato a lungo l'ex passerella della tratta negriera, mettendo in scena un curioso re-make di Allan Quatermain. Fortuna che, oltre la calca di Porto Novo, nicchia il delizioso villaggio di Aguégué, ove i piedi sono ancora liberi dalla morsa dei sandali, le palafitte profumano di olio di palma e le cicatrici rituali intagliano visi senza vergogna. Un assaggio del Benin piu' selvaggio e autentico, distante piroghe luce dai complessi urbani. Quello che mi attende ogni notte, rivelando solo occhi di bragia...

Salut!
Cobra Verde

Brigantino pirata n.3 Avrankou (27.07.2010)



I cetrioli portano fortuna. Inutile negarlo. Apparsi a fianco dell'hamburger ordinato a Cotonou, primo vero cibo toccato dopo giorni di boissons spumeggianti e formidabili bottigliette di latte al cacao, il viaggio ha preso immediatamente una piega differente. Quasi la Madre Russia avesse voluto lanciarmi un segno inequivocabile. Alzo lo sguardo, scorgo un pingue signore che si struscia al telefonino e penso: ecco il solito italiano in cerca di sesso facile. Ahimé! Dopo uno scambio di saluti fra commensali forzati, si rivela un padre foggiano di San Severo, in procinto di rientrare in Italia dopo quasi 14 anni d'interrotto servizio apostolico nella diocesi di Natitingou, nel profondo nord del Benin. Forse rincuorato dalla vicinanza di un conterraneo, don Francesco De Vita comincia a divorare pommes frites e a sputacchiare informazioni preziosissime senza mai prendere fiato: ricorda la sua infatuazione per l'Africa recondita, l'ardua opera di proseliti
fra tribù scandalosamente nude e pagane, le prime conversioni dopo una cura medica concessa e una carota accordata, spingendosi sempre più in là con gli occhi umidicci.
"Dimentica Cotonou - sentenzia stritolando infine un'oliva - Questa è solo la copia abbruttita di una periferia europea. Se cerchi l'anima del Benin, la troverai fra i villaggi ai piedi dell'Atakora".
E si' che mi ero appena compiaciuto dell'incredibile vivacita' artistica della città, colpito allo stomaco dalle sculture visionarie della Fondacion Zinsou: un gioiellino espositivo nascosto fra un maquis di gamberi sfrigolanti e una bancarella di panciere fuxia, dove l'Africa ribelle urla allo scandalo per il traffico nero di petrolio nigeriano, o denuncia le montagne di rifuti che nel 2052 riempiranno persino le casse toraciche di ciclisti in maschere antigas.
Macchè, fumo negli occhi per Occidentali creduloni. Il riscatto del Paese è ben lungi dall'essere in mano ad un pugno d'artisti di strada, sia che rispondano al nome di Tchif o de leggendario Lilanga. Chi si lascia alle spalle il Sud faccenderie e consumista, troverà solo comunità ossessionate dalla circoncisione con coltelli infetti, convinte che le precauzioni contro l'Aids siano solo l'ultima astuta trovata del bianco contro l'invidiabile fertilità nera. Tribù indolenti al lavoro in cooperativa, sempre pronte a sbaffarsi in una settimana il raccolto di tre mesi, nonostante l'incombente minaccia di un cielo senza più lacrime per i suoi figli. Niente acqua per il nord che vive di sussistenza, tifoni devastanti per il sud che festeggia in spiaggia. Cosi' è la vita.
L'agricoltura ecosostenibile del centro Songhai? Bella idea, certo, ma senza alcuna presa una volta lasciate le rassicuranti mura dell'azienda futurista. Niente fondi d'appoggio dal governo, nessuna rete di contatto, solo mogli affamate che hanno fretta di riprodursi col vicino di casa.
La carità di Gesù Cristo? Un comodo escamotage per far curare i figli scarnificati dalla malaria, quando i riti degli antenati non riescono a sortire effetto durante le ecatombi di capretti in piena notte. Lontano da occhi indiscreti, all'ombra di una croce che serve solo come palo per attaccare teschi, salvo poi meravigliarsi al mattino ostentando facce da bimbi colpevoli.
"Che senso ha ostinarsi nelle conversioni, allora?".
Don Francesco rigetta ogni parola dal sentore coercitivo. Lui invita. Espone amabilmente. Prega affinchè la luce della consapevolezza si faccia spazio solamente con la propria forza. Come accaduto quel giorno ormai lontano, quando un'anziana della tribù del suo villaggio getto' gocce d'acqua a terra, prima di spazzare la sabbia rossa fra le narici ingenue dei bimbi. Una rivoluzione del bon ton vicina al glorioso Ottobre, visto che l'acqua vale sempre oro. Persino quando contiene uova di zanzare o è soffocata da alghe verdognole.
Dietro la vittoria di Don Francesco c'è ben altro, pero'. Il prossimo ottobre tornerà in Benin per cimentarsi in una nuova avventura. Altro villaggio, altra tribù, ancora più selvaggia e renitente. Dei suoi vecchi compagni è già pronto a farsi una ragione. "Regrediranno, è quasi certo. Tutto tornerà come prima. Il peso della tradizione è un macigno insormontabile. Me se almeno uno si salverà, avro' fatto il mio dovere".
Non contano i numeri, sotto sotto. Tanto insensibili sono i pagani davanti ai figli morenti, pronti a non sborsare nemmeno un franco in cure mediche, tanto duro è il giudizio del missionario di Dio. Per lui occorre innanzitutto debellare il Grande Feticcio, che si cela insidioso fra le anime di Kotiakou. Uno, due, o tre battezzati fanno si' la gioia, ma non la felicità. Lui vuole una conversione di massa. Un'intera etnia in ginocchio davanti al crocefisso. E' la sua sfida personale. Il suo trionfo. La sua lotta infaticabile contro gli spettri d'Africa.
Sino a quel giorno non avrà pace alcuna.
Se sapesse, invece, dove sono finito proprio oggi. Dove mi ha guidato una moto lanciata verso le intricate foreste al confine con la Nigeria. Se avesse potuto vedere la madre che in lacrime ha intinto il figlio in una pozza sacra di acqua stagnante. La ragazzina che si versava secchiate sul ventre, sognando un erede che tarda ad arrivare. L'anziano che immergeva la testa sin quasi a soffocare, in cerca della vista che un tempo non risparmiava un solo pipistrello. Se avesse udito il riso sghignazzante della pingue cuoca del mercato di Adjara, intenta a tagliuzzare code di ramarro e a strappare piume di macaco.
Forse avrebbe capito perchè gli abitanti del posto hanno lasciato cadere in rovina il più ricco sito coloniale di produzione di olio di palma. Perchè s'accontentano di vivere in abitazioni su cui nessuno mette più mano da oltre cinquant'anni. Perchè le donne cantano nenie durante il bucato, sudano sotto il peso delle pile sulle loro teste, mentre un trattore arrugginisce nei campi. Credono, proprio come lui. Credono in una verità che nessun giogo puo' soffocare.
Hanno fede. Semplicemente.

A bièn tot!

Cobra Verde

Brigantino pirata n.4 - Ouidah (29.07.2010)



In Benin non ci sono autostrade per l'inferno. Costano troppo. Solo sentieri sterrati, lungo i quali la sabbia assume il colore del sangue. Non sono neppure troppo lunghe. Quattro chilometri possono bastare. Tale era infatti la distanza che separava la piazza di Ouidah dalla Porta del Non Ritorno, ultima sfuocata immagine di una costa maledetta, che nessuno avrebbe mai più rivisto. Per generazioni e generazioni. Per secoli. Sotto un sole cocente, il tempo si è pero' fermato ieri.
Vomitato dalle immacolate mura del Forte di Joao Batista, il cui nome portoghese non rende affatto giustizia del continuo avvicendarsi dei negrieri europei, al mercato della carne umana presenziava solo una statua dagli occhi sbarrati. Osservava con orrore proprio la pista sabbiosa ove nessun dio voodoo, nessun feticcio a tre teste, o a una gamba, sarebbe stato in grado di sciogliere le pesanti catene ai piedi. Alle mani. Al collo.
A volte gli spiriti si dileguano dietro palme fruscianti, in fondo alle paludi dal gracidio ossessionante, nelle ombre invocate per raggiungere almeno l'oblio, per morire in un corpo su cui chiunque, al di la' delle onde voraci, sara' autorizzato ad infierire.
Diventare zombie: sogno ribelle del fon e dell'ewe, piegato dalle armi, ma col cuore sempre altrove. In diaspora perenne.
Qualcuno deve aver ascoltato la preghiera segreta dei milioni di condannati che questa lembo di terra si è inghiottito sino all'indigestione: piangevano, ieri. Urlavano le donne e gli uomini dal color della pece. Si strappavano i capelli. Battevano i pugni su petti tesi come tamburi. Gridavano parole che solo Babele conosce. Inverecondo pianto del pellegrinaggio impossibile.
Dietro un bancone di fortuna, rum ed erbe per dimenticare. Io, bianco colpevole per il solo colore della mia pelle, sono stato rapito dal dio Legba e dai suoi tre totem. Costretto a sputare alcool per ridare vita al legno inciso. A leggere nelle conchiglie l'odio dei padri e il dolore delle madri. A farmi fumo insieme alla polvere da sparo, bruciata in una voragine oltre la quale regna sovrano il silenzio.

Viva John Brown,
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Brigantino pirata n.5 - Lac Ahemé (02.08.2010)



I segni erano evidenti. Tre cipree cadute con la scanalatura verso l'alto, una sola verso il basso. Cosi' si era palesato il cammino a Ouidah, cosi' è stato ribadito al mercatino dei feticci di Lomè, dopo una rapida incursione oltre i confini del Togo. Prima di farmi dono di alcuni amuleti, un medico tradizionale ha infatti voluto consultare nuovamente il responso della sabbia, onde non aver dubbi che il cammino africano proceda senza intoppi. Infine è arrivata la bisaccia del viaggiatore: al suo interno, un totem del dio Legba, dal ciuffo spettinato e trafitto da impietosi stuzzicadenti, cui si accompagna un bastoncino forato su un lato, il cosidetto telefono degli spiriti. La piccola apertura serve appunto per sussurrare le proprie preghiere e custodirle gelosamente, una volta sigillato il bastoncino con un tappo acuminato. In caso di fastidi potro' poi contare su una coppia di bamboline voodoo, uomo e donna: mai fidarsi troppo nè dell'uno, ne'
dell'altra.
Potenti armi dell'anima, indispensabili per chiunque prenda parte ad una cerimonia in cui i morti ritornano: quando i campi inaridiscono, è tempo infatti di dispensare profezie e portarsi via il più ingenuo dei malcapitati. A nulla sono valsi gli sgozzamenti di capre, capretti e polli con cui gli abitanti locali hanno tentato d'imbonire la furia dei revenant; quasi nulla la barriera di tambureggiamenti ossessivi opposta dai seguaci della sacerdotessa dei pitoni, presto divorata all'interno del tempio ove s'intrecciano i sacri rettili. Mugugnando parole dell'altro mondo, contorcendosi in vesti scintillanti e dal tocco fatale, loro si sono comunque manifestati, correndo a scatti per sorprendere i predestinati. Sono volati bastoni, le catene si sono spezzate, la polvere ha tinto il cielo di rosso: nella furiosa lotta con gli abitanti di Ahemè, qualcuno è caduto. E' sparito. O come dicono qui: è partito, lasciando solo impronte di una presenza che
tornerà sotto altre spoglie. Perchè in Benin non esiste storia: questa è solo il teatro dell'esistenza, in cui la verità assume il volto del credo, per trovare senso nell'eterna ripetizione. Come se la starà ridendo, quel satanasso di Nietzsche...

Una zampetta di pollo,
Mr Follow Follow

Schiavo portalettere n.6 - Natitingou (08.08.2010)



Perfida Abomey! Quando supponevo d'aver fatto breccia nel suo imprendibile palazzo reale, le truppe di re Behazin hanno messo in atto un infido piano di depistaggio. Al sorgere del sole la capitale del regno di Dahomey pareva infatti abbandonata: solo due leoni scolpiti sui pilastri d'ingresso, qualche raccapricciante immagine di prigionieri smembrati nel legno delle porte trionfali, per il resto spoglie fumanti delle antiche regge distrutte dal sovrano in fuga. A nulla sono valsi i fucili venduti ai selvaggi dagli emissari del Kaiser: un tempietto con croci teutoniche è tutto cio' che resta in piedi del loro maldestro tentativo di bloccare la nostra Grand Armeè.
Ben più fiera e inaspettata è invece apparsa la resistenza dei civili, che hanno impedito di documentare la presa del palazzo, facendo sparire per ore le nostre attrezzature fotografiche. A nessun profano è concesso avvicinare il terribile trono del re, poggiato su quattro teschi di svenuturati nemici; impossibile riprendere gli sbalorditivi bassorilievi che raccontano le gesta di questa dinastia sanguinaria, che non prova vergogna alcuna nel rappresentare corpi massacrati a colpi di gambe mozzate, teste staccate con fendenti impietosi, impalamenti di soldati oppostisi alle catene dei velieri negrieri. Nè posso tacere gli attacchi a sorpresa delle Amazzoni di Re Benahzin, mimetizzate fra le fronde di karitè, eppur sempre pronte a dardeggiare con frecce intinte nel veleno delle vipere di Guinea.
Impossibilitati a difendere il palazzo, abbiamo costretto il folle sacerdote del Fa a svelare il percorso di fuga del re: grazie alla sua arte geomantica, che il vecchio sostiene d'aver ereditato dall'Egitto dei Faraoni, i frutti secchi legati alle corde del responso hanno assunto per tre volte forme ben definite: "a nord, a nord!" - sbraitava ad orbite ribaltate, mentre un rancido odore di pollo spennato riempiva i fremiti delle nostre narici.
Detto fatto: issato il tricolore, le nostre truppe si sono prontamente rimesse in marcia, convinte che i nomadi Peul potessero prestarci aiuto nella cattura, vinti dalla loro stessa vanita': talvolta basta infatti qualche franco d'argento per conquistare le trecce delle loro donne, o semplici bracciali in oro per piegare la loro mano.
Purtroppo il sacerdote ci ha teso una trappola: lassù abbiamo incontrato solo foreste vergini, orme di elefanti e teschi abbandonati. Chiusi in un vicolo cieco, sferzati dalla pioggia che ha persino bloccato il guado del fiume Niger, abbiamo dovuto riparare fra le ospitali comunita' Taneka, alle porte di Natitingou. Anime buone, che vivono in tonde capanne solcate da brocche d'argilla e paiono aver a cuore solo la grappa di sorgo. Il loro re ci ha accolti addirittura in famiglia, invitandoci a riposare fra i seni scoperti delle sue giovani figlie e sotto l'egida del bastone degli avi. Finalmente un po' di respiro, dopo giorni tesi e pieni d'insidie.
Ora punteremo verso il confine dell'Alto Volta, dove vivono altre tribù pacifiche in curiose fortificazioni di fango. Somba le chiamano.
Comunque sia, il re non ha scampo. Il Dahomey è accerchiato e Parigi sta per madare rinforzi. Suonate la Marsigliese!
L'Africa Occidentale è nostra...

Allons!
Generale Dodds

Cammello prioritario n.7 - Ouagadougou (14.08.2010)



Non c'é merce più preziosa del bianco. Un vero affare per chi riesce ad accaparrarselo prima. A lui si puo' infatti chiedere tutto: di offrirti una birra Flag, sostituirti la marmitta bucata di una moto, regalarti soldi perché in pidgin "Le Blanc" significa solo bancomat con le gambe.
Se ad Abomey l'arroganza delle pretesa pareva giustificata dall'odio ancestrale per la tratta, tanto che i bimbi per strada muggiscono "Yovo, l'argent!" quasi minacciassero la borsa o la vita, in Burkina Faso il nome della propria nazione costringe ad acrobazie di maniera.
Qui l'argent si declina infatti nel cadeau: lo si puo' accettare solo in termini di dono, di gentilezza un po' laccata, ma è ambito con una fame che mortifica più delle catastrofiche classifiche del Wto.
Impossibile passeggiare senza essere importunati ad ogni passo; inutile nascondersi in oasi verdi che non esistono o fuggire lontano attraverso i propri auricolari. Qualcuno sarà comunque già li', a fissarti con occhi bramosi e a inventarsi amicizie talmente arrovellate, da giustificare qualunque confidenza.
Ecco perchè nel Paese degli Incorruttibili occorre formarsi alla scuola di Gorom Gorom. Lassu', dove il Sahara lambisce il Sahel, l'aridita' della terra cresce uomini coriacei come baobab. Infaticabili. Inesauribili. Capaci di trattare senza mai alterarsi, dall'alba al tramonto. Il più grande mercato dell'Africa Occidentale svezza ogni giovedi' generazioni di Tuareg, Songhai, Peul e Bella che non devono chiedere mai. Cio' che si desidera viene ottenuto soltanto donando il meglio di sé.
Non serve astuzia alcuna, né sfacciataggine o tanto meno umiliazione.
A Gorom i buoi paiono infatti minotauri incontenibili, le donne intrecciano coperte capaci di opporsi persino alle polveri dell'harmattan, mentre chi non ha virtù di sorta potrebbe tranquillamente ritrovarsi in catene sul fondo di una carovana che vende carne da macello.
La lenta scomparsa dei grandi mercati regionali, a favore di quelle interminabili vetrine ambulanti che intossicano ogni citta' d'Africa, è forse la peggior sventura per il riscatto del nero. Genio dell'artigianato d'emergenza, si sta ormai trasformando in un ozioso procacciatore, capace di piazzare solo quanto la fatica d'altri ha confezionato.
La Cina e l'India sembrano lontane anni luce da Ouagadougou o Cotonou, eppure sono onnipresenti. Più torrenziali delle nuvole dell'Atakora. Investono di novità e patacche le coste di un continente che, ancora ieri, sapeva fare delle Renault5 di Capitan Sankara una Ferrari di rappresentanza. Avanzano, lente ma incontenibili, con la stessa determinazione con cui le sabbie si bevono i pozzi d'acqua e il vento ruvido del nord polverizza le moschee di fango.
A Bani non restano che scheletri d'Islam, parvenze di un'età dell'oro che si reggono ancora in piedi grazie allo sterco delle vacche.
Senza bocchi al mare, incapace di spingersi oltre la vuota grandeur del francese scolastico, il Burkina Faso è ben lungi dal sogno del suo compianto Capitano. Urla una disperazione che nessuno puo' più intedere, ha sete di orizzonti che immagina attraverso spettri distorti.
A sud attendono capanne imbellettate con penne di faraona. A Bobo Dioulasso si confida nella grandezza di Allah, imperscrutabile quanto la sofferenza di un Ramadan troppo lungo da digerire. Qualcuno invoca un nuovo San Sankara, la cui tomba sbiadisce pero' fra rigurgiti di fogna e spazzatura d'occasione.
A volte ci si chiede perchè un grilletto non basti per farla finita.
Scatta a vuoto. Made in China. E' il solo giocattolo il mondo oggi concede a quest'uomo bestiale, privato addirittura del diritto di crescere.
A 140 anni dall'abolizione della schiavitù, il nero ha perso solo una "g", ma grazie a Darwin ha ritrovato zia Lucy.

Nel cielo coi diamanti,
Alberto Da Silva

1 commento:

Anonimo ha detto...

Condivido pienamente il suo punto di vista. In questo nulla in vi e credo che questa sia un'ottima idea. Pienamente d'accordo con lei.
E 'vero! Ottima idea, condivido.