"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

martedì 31 agosto 2010

LE ISOLE DEL NON RITORNO




Devono aver usato inchiostro simpatico per disegnare le Andamane. Appaiono e scompaiono dal Golfo del Bengala a colpi di tsunami, o assai più spesso per astruse alchimie politiche. Sostanzialmente sconosciute sino al 1788, allorché il luogotenente Arcibald Blair vi sbarcò fra sbuffi di cornamuse paonazze ed uniformi sudaticce, sono tornate nell’anonimato con la stessa velocità con cui gli indigeni infilzarono all’epoca i sudditi di Sua Maestà, probabilmente scambiati per varani albini.


Camminavano sì su due zampe, ma la brama del predatore scintillava subdola nei loro occhi. Dicevano di venire in pace, di portare i lumi di una civiltà più evoluta, eppure dietro i colletti imbiancati nascondevano la malata idea di costruire nell’arcipelago il più spietato carcere del loro nascente Impero. La “Cayenne” d’India, giusto per gonfiare il petto con i francesi, sapientemente occultata in una delle oltre cinquecento isolette che si allungano a est di Madras e inglobano pure gli affioramenti delle Nicobare.


Oggi i sette raggi del penitenziario di Port Blair si sono infranti, con grave disappunto di Jeremy Bentham e del suo infallibile “Panopticon”, ma le ragioni degli indipendentisti indiani hanno incredibilmente assunto i toni dei vecchi conquistatori. Le recenti dichiarazioni del parlamentare Bishnu Pada Ray, secondo cui “i bimbi delle tribù Jarawa dovrebbero essere allontanati dalle proprie famiglie e trasferiti in collegi scolastici”, hanno l’inconfondibile sapore di una superpotenza coloniale dalle mire tracotanti. Ruolo che l’India interpreta con grande disinvoltura nell’Assam così come nel Tripura, nel Sikkim al pari che nel Kashmir, pestando i piedi a tutti, ma venendo ogni volta perdonata da un Occidente troppo in affanno per fare la voce grossa.


Forse è capace ancora di commuoversi di fronte alla scomparsa dell’ultima superstite della tribù dei Bo, venuta a mancare lo scorso gennaio dopo aver disperatamente tentato di consegnare ai posteri un tesoro autoctono di 65mila anni, ma non rinuncia a chiudere una strada che, ogni giorno, spande microbi letali ed esche consumiste nel cuore di una foresta da cui l’uomo nero rifiuta d’emanciparsi. Anzi, ora accarezza l’idea di costruirvi accanto persino una ferrovia.











Volta faccia agli imprenditori di Barefoot India, dopo aver loro concesso di costruire un lussuoso resort nelle terre sacre dei cacciatori nomadi e sbandierato l’idea di lanciare qui le nuove Maldive; strizza l’occhio a Survival, quando occorre lavarsi la coscienza e sdegnarsi per gli operatori turistici che propongono safari “tribali”; eppure sembra una posa di comodo per disboscare in tutta pace un’immensa foresta dal legname pregiatissimo. 
Thimbok e Chuglum che ogni giorno arrivano a tonnellate sotto le lame della segheria Chatham, fra i più grandi impianti di lavorazione in Asia, in funzione addirittura dal 1836. D’altra parte si sa: l’indiano ha fiuto per il business, sia dello spirito che della pancia, e poco conta se occorre far ricorso agli odiati simboli dell’imperialismo di Sua Maestà.
















Eppure qualcosa continua a non funzionare, laggiù: come ben presto si rese conto il capitano Henry Man, le Andamane non sono addomesticabili. Dopo diversi tentativi abortiti, nel 1858 il terribile penitenziario sembrava davvero in funzione, ma mantenerlo in vita costava più fatica che mettere le ganasce ai piedi degli indiani. Far schioccare la frusta sulle loro schiene scheletriche non serviva ad azzittire l’ossessionante tramestio della jungla. 
Incatenare gli spiriti ribelli ad una sedia in gattabuia non liberava dalla morsa soffocante delle radici, che giorno dopo giorno s’insinuavano nei pertugi del perbenismo vittoriano, sgretolando le sue guglie neogotiche esattamente come la fede nell’ecumenismo della Union Jack.





















Oltre Ross Island la notte si riempiva di urla sinistre, mentre le budella dei maiali, abbandonate per strada dagli invisibili uomini della foresta, preannunciavano una punizione orribile. Quella che si sarebbe meritata Doodhnath Tiwaria, un ammutinato del 14° reggimento indiano, capace di sfuggire alle sbarre del penitenziario di Port Blair, ma non all’ineluttabilità del destino: catturato dagli aborigeni durante la sua fuga sanguinaria, si guadagnò la loro fiducia sino a sposare le due figlie dei capitribù Leepa e Geeja.


Quando questi decisero però di mettere sotto assedio il contingente inglese, attaccando la stazione di polizia Aberdeen il 17 maggio 1859, strisciò dai suoi vecchi aguzzini avvertendoli del pericolo mortale che incombeva su di loro. Si guadagnò una libertà macchiata dall’ignominia, gli inglesi fecero a pezzi i ribelli, ma gli aborigeni persero per sempre la fiducia nell’uomo che veniva dal mare. “Eenen piti piti” ribattezzarono il forestiero: l’uomo malvagio.



Da allora, la jungla delle Andamane si è fatta ancora più impenetrabile, inghiottendosi gli Jarawa, gli Onge e i Grandi Andamanesi, mentre la rotonda Sentinel Island non ha mai smesso di abbassare la guardia, assurgendo a baluardo di un’invasione impossibile: qualsiasi tentativo di sbarco sulle sue spiagge immacolate continua a tingersi di sangue e cianuro. Neppure i giapponesi riuscirono a fortificare i propri bunker, dopo il fugace tentativo di scacciare la flotta inglese fra il 1942 ed il 1945: se ne conta qualche sparuto superstite proprio a Ross Island, in piedi per la gioia dei militari indiani che al loro interno festeggiano oggi le libere uscite dalla caserma di presidio.


Viper Island risulterebbe certo più defilata per concedersi qualche raro momento di baldoria cameratesca, ma le rovine della forca che tante anime indiane si prese appaiono ancora infide: a dispetto del suo nome, là si nascondono più coccodrilli che rettili velenosi, decisi a perpetuare il mito d’isola del non ritorno.


Nessuno sa veramente quanti e dove siano i superstiti di queste lotte dimenticate dagli annali: si stima che la foresta delle Grandi Andamane nasconda ancora 320 irriducibili, ma sono solo numeri rubati alle cartelle dei laboratori ospedalieri disseminati fra Port Blair e Diglipur, ove l’orgoglio del selvaggio deve piegarsi al miracolo della stregoneria dell’invasore.


Perché da quando il loro piede ha offeso le felci di Little Andaman e a Baratang è stata violata la rabbia del sacro vulcano di fango, da quando le piane di caccia sono state trasformate in risaie e le grotte degli animali pietrificati in rifugi del dio Ganesh, la punizione degli antenati è giunta ineluttabile.




Si muore per uno starnuto. Si muore per una pustola. Si muore per i bocconi della compassione. Quelli che rotolano dai finestrini dei bus lanciati a folle velocità, lungo una strada che somiglia solo ad un tortuoso sfregio: un giorno è una bibita colorata, un altro un pacchetto di patatine, un altro ancora un’assurda t-shirt, accolta fra le mani di chi oggi non può far altro che invocare il cielo e piegarsi alla forza dei prodigi.


A tal punto che vivere nascosti non serve più: l’Andaman Trunk Road spalanca una finestra cangiante su un mondo oscuro e fascinoso, fatto di mostri d’acciaio e risa sguaiate, di braccia violente che ti scaraventano a terra quando tenti di dare una risposta ai grandi perché della vita, o che ti trascinano via quando vorresti solo dimenticare il dolore che il mondo ha improvvisamente risvegliato. Proprio come un animale ferito ed offeso, accucciato dietro quelle foglie che un tempo videro invece irrompere baldanzosi guerrieri dal petto lucido di grasso. C’è chi non si dà per vinto e ancora osa, mentre le auto in coda attendono un traghetto arrugginito o una famigliola brucia incensi sotto un fico, convinta che Krishna e Shiva vivano ovunque la loro dedizione inciampi.


Un fruscio di frasche. Passi felpati. Ombre che d’improvviso prendono forma. Sono loro, gli implacabili uomini neri delle foreste, dalle narici che si dilatano terrorizzate, ma dal machete facile. Quelli che ti fulminano con un’occhiata, ma al tempo stesso morirebbero dalla voglia di capire i sibili della tua lingua. Quelli che ti passano a fianco sfiorandoti quasi con i loro archi, ma che l’orgoglio costringe col mento alto all’orizzonte. Prima di sparire nel nulla, di tornare nuovamente ombre inquiete, aprendosi varchi dove la natura aggroviglia le sue viscere.


Ci penseranno le motoseghe a stanarli, con la complicità di qualche povero elefante costretto a liberare il percorso da tronchi di padauk ormai senza vita.


Oppure le onde impazzite dell’oceano, come già accadde col fatidico tsunami del 2004, quando la loro terra venne sciacquata via dalla furia distruttrice delle acque, materializzandosi improvvisamente sulle prime pagine dei giornali.


Urlo rabbioso di una natura troppo a lungo offesa, pronta a riprendersi quei figli che la cupidigia altrui avrebbe comunque condannato ad una fine ingloriosa, relegandoli lontano dalle loro case, vestendoli di stracci a buon mercato, dando loro una ragione di vita che nessuno di essi mai comprenderà.


I Bo se ne sono andati così. Gli Onge sono stati strappati alle capanne comunitarie di Little Andaman, per finire a Dugong Creek e South Bay nei prefabbricati dell’incuria burocrate. Dietro recinti scricchiolanti che non hanno più racconti e saghe da custodire. Per quel che resta degli Jarawa, costretti a vagare come spettri fra felci e liane, si fa affidamento ai centri d’accoglienza disseminati sulle isole a partire dalla fine degli anni ’90, quando alcuni di loro presero coraggio e iniziarono ad annusare i villaggi dello straniero. A riportare le teste dei contrabbandieri bengalesi, spintisi dove non avrebbero dovuto. Ben poco si può fare per i Grandi Andanamesi, infine: fagocitati in fretta e furia dalla potente macchina civilizzatrice indiana, che nel 1971 stava per perdere persino gli ultimi 19 sopravvissuti, si sono trasformati in anonimi cittadini della più grande democrazia del mondo.




E’ tutto quel che resta dell’epica migrazione che, agli albori della storia, guidò tribù affamate dal cuore d’Africa verso un Oriente dai confini incerti, ove i congiunti di Papua o d’Australia non se la passano certo meglio. Avanti di questo passo, punte di freccia in osso, conchiglie levigatrici e cestini di canapa saranno le sole testimonianze visibili ai pochi curiosi che si avventurano in quest’avamposto del progresso; polverose reliquie del museo antropologico di Port Blair, che fanno concorrenza ai verdi piccioni imperiali, ai macachi mangia-granchi e alle circa 200 specie animali autoctone segregate dietro la ruggine dello zoo civico.


Vita alla sbarra. Il destino delle Andamane.

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