"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 27 maggio 2010

INDOVINA CHI VIENE A CENA




D’improvviso una vocina stridula e questuante. Attorno, solo buio impenetrabile. Chiede di un certo Mr Kapitan, rimbalzando da una stalagmite all’altra della grotta, sino a raggiungere le orecchie con un sibilo tanto carezzevole, quanto inquietante. Se non fosse per le correnti di vento caldo che s’infiltrano dai pertugi nella roccia, il sospetto che si tratti davvero dell’alito di uno spirito marinaio - imprigionato nel covo più remoto di Goras - potrebbe suonare più che realistico. Invece è solo il falsetto del professor Furir, che brancolando fra cataste di conchiglie ammuffite e pietre dallo scintillio diamantifero, sta cercando d’ammansire il misterioso inquilino di una voragine apparentemente senza fondo.



“Prudenza! Prudenza! – biascica in un bagno di sudore – Qui osa solo chi vuol conoscere le verità di Papua più arcane e vetuste! Quanti sono in cerca di facili bottini, o di polverose reliquie appartenute a qualche povero diavolo rimasto sepolto, corrono solo il rischio d’essere annegati dall’arrivo dell’onda vendicatrice”. Deglutisce sgomento.



Difficile che su questo tratto occidentale della costa dell’isola, a circa cinque ore di barca dall’ex avamposto coloniale olandese di Fak Fak, si possano trovare ricchi tesori, se non forse bombe a mano inesplose, mitragliatori arrugginiti od ossa spezzate di soldati giapponesi, vittime dei bombardamenti Alleati nel 1944. Dal Dopoguerra ad oggi l’intero promontorio lambito dal mare di Arafur è stato abbandonato a sé, tanto che Furir non se ne dà pace: negli anni ’60, andando a caccia di squali, si è imbattuto in scogli a strapiombo sulle acque, dov’è stato impresso il disegno delle mani dei primi abitanti dell’isola. Ma nessuno continua a saperne nulla.



Sono innumerevoli. Bianche. Rosse. Ocra. Talvolta fra loro spasmodicamente sovrapposte. Paiono protendersi oltre la linea dell’orizzonte, quasi stessero supplicando di liberarle dalla morsa della terra. Messe in evidenza grazie alla tecnica dei pigmenti a spruzzo in uso fra gli aborigeni australiani, queste impronte potrebbero risalire a 40mila anni fa, qualcuno asserisce addirittura ad 80mila, ma finché Jakarta continuerà a disinteressarsi della sua provincia più remota, mentre i viaggiatori internazionali a considerare Papua un buco nero dell’atlante, fantasmi capricciosi non smetteranno di tenere in pugno gli abitanti locali.



Eppure la posta in gioco è altissima: osservando la forma convessa degli affioramenti rocciosi levantisi dalle acque, simili a bolsi giganti coperti d’alghe, non è difficile arguire che le pareti dipinte siano gli ultimi resti di grotte spezzatesi a metà, per poi collassare apocalitticamente nei fondali del Pacifico.
“L’inabissamento del continente della Sonda non è solo una leggenda – ammonisce Furir – e il caleidoscopio d’isole che costituiscono l’arcipelago indonesiano dovrebbe rappresentare già di per sé un argomento probante. A qualcuno però fa comodo sostenere altre teorie, credere che le tribù australiane abitino da sempre nei propri territori, tagliando fuori Papua da ogni spiegazione, quando in realtà noi siamo l’anello di giunzione per comprendere i grandi movimenti migratori dell’uomo e l’evoluzione della specie”.



Nelle parole dei Papua emerge immancabilmente un forte risentimento verso tutto ciò che è estraneo alla propria terra, dal momento che il mare ha in fondo portato sempre e solo sventure: i fucili dei Portoghesi nel ‘500, cui si deve il nome stesso dell’isola (Papua deriva dal portoghese papuas, aggettivo per indicare uomini scuri dai capelli crespi), le croci missionarie di fanatici tedeschi, il giogo asfissiante degli Olandesi, cui nel 1962 si è semplicemente sostituito quello dei Javanesi, ironicamente giunti per liberare “il buon selvaggio” dallo sfruttamento coloniale.



Oggi i proventi della miniera aurifera di Freeport, la più grande al mondo, vanno però a rimpinguare solo le tasche di Jakarta e di Washington, gas e petrolio sono appannaggio dei sudditi di Sua Maestà d’Inghilterra, mentre le multinazionali del legname divorano ogni giorno chilometri quadrati di lussureggiante foresta equatoriale.



Ogni risorsa viene incessantemente depredata sotto lo sguardo indignato dei locali, incapaci di opporre altro ai carroarmati del governo, fuorché archi e frecce, o sporadici atti di rivolta guidati dal Movimento per la Liberazione di Papua.



Quando Furir depone un mazzo di garofani ai piedi di due colonne basiche, probabilmente Mr Kapitan è lì a sbirciare. Poco importa capire chi esattamente sia. Se un marinaio dei secoli andati, rintanatosi nella grotta di Mamasa alimentando le fantasie delle tribù locali, o piuttosto un profugo della Seconda Guerra Mondiale. L’importante è che apprezzi l’omaggio tributatogli ed interceda sommessamente con una benedizione per lo straniero: perché una volta abbandonata la costa, Papua spalanca le porte dimensionali di un mondo rimasto fermo all’età della pietra. Duro e selvaggio. Dove la minima imprudenza può costare il morso mortale di una vedova nera o la freccia avvelenata di una tribù sconosciuta.



Isolata per secoli dai grandi sconvolgimenti storici, inaccessibile ai più, il suo ecosistema è riuscito a conservare meraviglie uniche al mondo: petauri volanti, dingisi timidissimi, casuari talmente pigri d’aver dimenticato come usare le proprie ali, o magnifiche creature dalle piume color arcobaleno, che - non temendo l’uomo - hanno finito per essere chiamate addirittura Uccelli del Paradiso.



Ovunque lo sguardo si posi, si ha effettivamente la sensazione di trovarsi in uno degli ultimi eden terrestri: le spiagge dell’isola di Biak sono accarezzate da sabbie immacolate, mentre nei fondali di Raja Ampat gli sparuti divers qui giunti raccontano d’aver visto creature impossibili. Enigmatici e silenti sono pure i megaliti zoomorfi che vegliano sulle acque del lago Sentani a Doyo Lama, le cui forme sfingiche, così come le incisioni sciamaniche da cui sono solcati, quasi li avvicinano ai resti di una civiltà aliena.



Il vero extraterrestre, però, è ancora l’uomo bianco, soprattutto se lo si vede arrivare dal cielo in piena jungla, magari a causa di un’avaria ad un motore dei piccoli Cessna missionari che osano inoltrarsi nel cuore tenebroso dell’isola.



In piccoli villaggi come Yaniruma o Mbasman si può ancora contare su una rete di contatti piuttosto solida, a tal punto che la presentazione del “suran jalan” alla stazione locale della polizia quasi regala la sensazione di una virile pacca sulla spalla: è il permesso che il governo rilascia per esplorare le zone di frontiera, quelle in cui le analisi geopolitiche cedono il posto ai racconti straordinari e dove la scienza torna a farsi mito.



“Là dentro potrai contare solo su te stesso – sono soliti ammonire impiegati dalle ascelle pezzate – perché t’aspettano giorni di duro cammino, con le gambe sprofondate nelle paludi sino alle ginocchia, un’umidità capace di ridurti ad una pozza d’acqua e zanzare malariche che non perdonano mai”.





Molti tremano e preferiscono tornare sui propri passi, magari a Wamena, dove nella splendida valle del Baliem va in scena ogni agosto il folkloristico festival delle tribù Dani, use a scagliare in aria lance e frecce, ma solo per gioco. Pronte ad offrire prove d’abilità nel cucire borse di caurio o nell’infilare conchiglie di ciprea, dimostrando in tal modo di non essere solo abili coltivatori di patate dolci, ma abitanti di capanne di paglia che conoscono arti sopraffine, come quella d’affumicare le mummie dei loro avi guerrieri e conservarle intonse per centinaia d’anni.







Oltre Yaniruma invece non si scherza. Ogni passo avanti è una benevola concessione dei capitribù Korowai e basta un movimento inaspettato, una parola di troppo o magari un sorriso incompreso, per farti sentire nudo come un casuario sulla brace. Le voci sul cannibalismo non sono solo dicerie.



Non appena in cima agli alberi appare una khaim, la tipica capanna che le tribù locali costruiscono sino a venti metri dal suolo per sottrarsi ai predatori (animali o umani), le foglie delle palme di sago iniziano a frusciare. Richiami gorgheggianti coprono il verso dei cacatua terrorizzati. Dieci, venti, cinquanta selvaggi dai nasi traforati con ossa d’uccelli e un guscio di ghianda a coprire i propri genitali sono già lì. Tutti attorno, ansimanti e spaventati. Ma anche dannatamente curiosi.



Qualcuno tenta di allungare la mano verso quella strana creatura bianca che molti considerano un laleo, un demone ghiacciato. Però la ritraggono subito. Meglio un approccio meno compromettente: annusare le ascelle, il collo e il petto li rassicura molto di più. Solo se non si è imbevuti di qualche deodorante. Il rischio, altrimenti, è che si possa esser scambiati per khakhua, stregoni da cui ci si libera solo divorandone il fegato, lo stomaco ed il cuore.



Aver avvicinato già tanto un Korowai dovrebbe comunque preservare da spiacevoli sorprese. Sono infallibili arcieri e, se davvero avessero timore del nuovo giunto, non ci penserebbero due volte a tendere una freccia dall’alto delle proprie abitazioni. Da quando hanno iniziato a riconoscere in lontananza il rumore delle motoseghe, anche la loro curiosità verso il mondo al di là della foresta è cresciuta a dismisura.



Sino alla fine degli anni ’70 nessuno sapeva della loro esistenza e loro stessi erano convinti che oltre il cerchio delle piante ci fosse solo il regno degli spiriti vaganti. A causa di un missionario olandese, un certo Van Ewk, oggi le cose sono un po’ cambiate. Tanto che la loro sopravvivenza potrebbe dipendere solo e paradossalmente dal turismo, pronto a preservare il fascino del “buon selvaggio”, purché questi abbassi la testa e accetti di mettersi in vetrina.



Qualcuno ha abbracciato la croce e si sta sforzando di parlare indonesiano bahasa. Altri si sono lasciati convincere addirittura ad indossare vestiti logori. Più si “civilizzano”, meglio è per Jakarta, che ha fame di legname e dollari. Capita dunque d’essere invitati a fumare le loro pipe oblunghe o prender parte alla lavorazione del sago, la principale risorse dall’alimentazione Korowai, offrendo il quale riescono a rompere un po’ il ghiaccio con gli stranieri. Eppure, potrebbe essere solo l’evoluzione di una tecnica di caccia più astuta e sottile.



Quando si riceve l’invito a cena da un presunto ex cannibale, il cui sorriso smagliante annuncia ai suoi un piatto speciale per la giornata, qualche terribile dubbio inevitabilmente s’insinua. Malacoscienza. “Fuori le teste di topo e le larve di scarafaggi. Oggi si festeggia!”.
Già, chissà sino a quando. E soprattutto: chissà in quale modo.



OPERASI KOTEKA



C’è chi lo chiama koteka, chi horim, chi ancora lonka lonka. Se si dovessero passare tutti i 250 dialetti di West Papua, l’elenco sarebbe spropositato. Di certo l’astuccio penico è il simbolo più importante delle culture tribali dell’isola, non solo per la sua funzione di status symbol all’interno della comunità, ma anche come elemento d’affermazione d’identità contro le battaglie ideologiche condotte da Jakarta. Fra il 1970 ed il 1971 il governo indonesiano lanciò infatti l’operasi koteka, una campagna di “modernizzazione dei costumi” che avrebbe dovuto costringere le popolazioni papuane a vestire abiti occidentali, anziché girovagare per valli e foreste completamente nude. Non ci fu verso di convincerle, tanto che scoppiò quasi una guerra civile, poi stemperata dal dietro-front del governo. Analogamente fallirono i missionari cristiani, instillando però il senso di vergogna nelle tribù coinvolte, visto che ancor oggi molte di esse corrono a prendere stracci e vestiti per coprirsi, non appena avvertono su di sé lo sguardo degli stranieri.
Comunque sia, al koteka non si rinuncia. Oltre a dimostrare la virilità dell’uomo, essendo sempre legato al bacino e al petto in posizione eretta, questa zucca cava serve spesso da bisaccia per portarsi appresso tabacco od erbe senza bisogno di borse, nonché come protezione indispensabile negli scontri corpo a corpo con le altre tribù. Può avere forma ondulata, ripiegata, essere rigonfio o artisticamente dipinto. Insieme alle corone di penne di casuario e alle ossa di maiale infilate nel naso, il koteka fa parte del corredo classico delle popolazioni Dani, mentre altre tribù, come i Korowai, preferiscono proteggere i propri genitali con un doloroso massaggio mediante cui il pene viene introflesso nel corpo, lasciando all’esterno solo il glande (protetto però da un guscio di ghianda).

WASUR NATIONAL PARK



Benché relegati ai margini della società, strettamente in pugno alle comunità javanesi trasferitesi a Papua tramite il progetto “trasmigrasi”, gli abitanti locali hanno saputo ritagliarsi a fatica spazi d’imprenditoria. Se il governo di Jakarta confisca periodicamente ampie fette di terreni papuani, per poi assegnarli ai residenti delle sovraffollate isole indonesiane meridionali (a condizioni di favore), le tribù Marind e Kanun della zona di Merauke hanno infine imparato il trucco. Anziché continuare a vivere separate le une dalle altre, nel 1997 si sono organizzate per fondere i propri terreni nel Parco nazionale del Wasur, sotto l’egida del Wwf. Oltre a proteggere il proprio ecosistema da bracconieri e taglialegna, qui sono libere di vivere seguendo i propri costumi e, soprattutto, di farli conoscere senza traumi ai visitatori.
Esteso per circa 413mila ettari, fra foreste allagate d’eucalipti e scabre savane, il parco presenta un’ampia varietà di specie sia floreali che faunistiche: fra le meraviglie della natura, spiccano enormi termitai alti sino a cinque o sei metri, utilizzati come forni per cuocere la carne di canguro. All’interno della riserva sono stati allestiti fra l’altro alcuni impianti per la lavorazione delle foglie d’eucalipto, dalle quali si ottiene un olio particolarmente concentrato: i Marind lo considerano una sorta di panacea contro tutti i mali. Lo usano per tener lontani gli insetti, per massaggiare i corpi doloranti, per curare i bruciori di stomaco bevendone piccoli sorsi, o addirittura per combattere la malaria. I soldi ricavati dalla vendita delle sue preziose bottigliette vengono poi reinvestiti nella salvaguardia del parco.

FESTIVAL PER TUTTI I GUSTI



L’antesignano è stato il festival di Wamena, nella valle del Baliem. In calendario ogni anno, verso la metà di agosto, questo appuntamento è stato capace di catalizzare da solo il poco turismo sviluppatosi a Papua a partire dai primi anni ’90. Durante i tre giorni di celebrazione, le tribù Dani mettono in mostra tutto il repertorio del loro folklore: danze spettacolari, canti selvaggi, simulazioni di battaglie, corse di maiali e prove d’abilità con archi e lance. Sull’onda del successo riscosso, l’amministrazione papuana ha deciso di pubblicizzare con decisione altri analoghi eventi: lo scorso giugno, ad esempio, è stata inaugurata la prima edizione del festival del lago Sentani, durante il quale vengono inscenate sulle acque spettacolari battaglie a bordo di navi a forma di coccodrillo. A pochi chilometri di distanza, la cittadina di Waena si trasforma a fine agosto nel punto di ritrovo di tutte le tribù papuane, chiamate a confrontarsi non solo a passo di danza, ma anche nell’arte mimica di rappresentare i propri miti. Di prestigio pari, se non forse superiore a quello di Wamena, è infine il festival della cultura Asmat, che si tiene fra ottobre e novembre nelle cittadine di Agats e Merauke. L’occasione è impedibile per ammirare le rinomatissime sculture delle popolazioni meridionali, giudicate fra le migliori di tutto il Pacifico. Oltre agli scudi e agli idoli di legno, realizzati in una serie infinita di smorfie per allontanare gli spiriti malvagi o catturare la fortuna, tipici sono soprattutto gli “mbis”: pali commemorativi che incarnano la cosmologia Asmat ed hanno valore apotropaico.

RISTORANTI



RUMAH MAKAN MICKEY
A due passi dall’aeroporto di Sentani, sul corso principale di Jalan Kemiri, questo piccolo ristorante cino-indonesiano è il punto di ritrovo preferito dalla clientela internazionale, per via dei suoi menù tradotti in inglese. Immancabile il nasi goreng, cioè il riso fritto condito a scelta con verdure al vapore, piccanti, blocchetti di pollo o gamberi. Singole portate a partire da un euro e mezzo.

RUMAN MAKAN MAS BUDI
Benché a Wamena abbondino i tradizionali warung indonesiani, tavole calde allestite alla buona per strada, questo piccolo ristorante alla periferia settentrionale della città – in Jalan Pattimura – riesce ad offrire pesce freschissimo, persino nella vallata dov’è d’obbligo il maiale alla brace. Ottimi i gamberoni piccanti con salsa di cocco. Prezzi compresi fra i 2 e i 5 euro a portata.

SANDRA CAFE’
Merauke è senza dubbio la cittadina più ordinata e pulita di tutta Papua, ma questo locale lungo Jalan Raya Mandala è sempre pronto a ricordare che la jungla si trova a soli pochi chilometri dalla strada. Immerso in un giardino lussureggiante, offre suggestivi tavoli su più piani, illuminati da candele e impreziositi da piatti di pollo fritto e caramellato. Irrisori i prezzi, che partono da meno di un euro.

HOTEL



SEMERU
A Sentani stanno nascendo hotel come funghi, di categoria sempre più elevata, ma sotto sotto solo sulla carta. Il Semeru resta ancora uno dei più quotati, non solo per l’estrema vicinanza all’aeroporto, ma anche per le sue camere semplici e pulite. Persino quelle col ventilatore, sono dotate di water classico e doccia, a dispetto di turca e mandi (una vasca da cui si raccoglie con un secchiello l’acqua lasciata in deposito per lavarsi). Prezzi a partire da 12 euro.

BALIEM VALLEY RESORT
Essendo il luogo più turistico di tutta Papua, Wamena può vantare anche l’unico resort (www.baliem-valley-resort.de) che possa dirsi tale. Situato 10 chilometri a nord della città, è immerso in una campagna incontaminata ed offre camere ispirate allo stile delle capanne Dani. Docce con pareti in pietra e pavimenti in legno. Costa tanto, 125 dollari a notte, ma è l’unico lusso che ci si potrà concedere per tutto il viaggio.

NAKORO
Un’oasi di pace dal traffico di Merauke. Nascosto in una stradina parallela al corso principale, questo grazioso hotel familiare ha camere intime e pulite, nobilitate dal sottostante giardino di profumati fichi. Incredibile ma vero, la colazione viene servita a letto. Prezzi a partire da 18 euro.

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