"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

domenica 29 giugno 2008

LA PIANTA DELL’OBLIO




O troppo, o nulla. Quando si ha a che fare con i grandi personaggi della storia, le mezze misure non contano. Tale è il caso di Gaetano Osculati, forse il più grande esploratore geobotanico che l’Italia abbia avuto nell’Ottocento, incredibilmente dimenticato per anni persino dai suoi stessi concittadini di Biassono, pittoresco borgo della bassa Brianza. Grazie all’impegno del Gruppo ricerche archeostoriche del Lambro, le sue gesta sono però tornate d’attualità, a tal punto che ben tre Comuni – Biassono, Vedano al Lambro e Monza – se ne sono recentemente contesi i natali a colpi di documenti ingialliti, pur di celebrare il bicentenario della sua nascita.
Le ultime ricerche lo legano indissolubilmente ad una vetusta casa conservatasi nella frazione biassonese di San Giorgio, dove appunto nacque il 25 ottobre del 1808, venendo tuttavia iscritto nei registri della parrocchia di Vedano al Lambro (allora competente su un territorio più esteso rispetto agli effettivi confini comunali). Poiché il futuro avventuriero trascorse lunghi periodi della sua vita a Monza, assai più nota dei suoi vicini, qualcuno pensato invece di “naturalizzarlo” post mortem quale figlio prediletto della città di Teodolinda.

Ovunque si voglia far ricadere la scelta finale, Osculati – primogenito di undici figli che il padre Gerolamo mise al mondo in due differenti matrimoni - risponderebbe ancor oggi a suo modo: alzando le spalle e guardando un po’ più in là. Compiuti i primi studi presso i Barnabiti di Rho, fece giusto in tempo ad avvicinarsi alla facoltà di medicina, per abbandonarla quasi subito a favore della matematica, delle scienze naturali e nautiche, discipline che gli valsero il grado di capitano di lungo corso a Livorno. Di fatto, un lasciapassare per i mari di mezzo mondo, verso cui si spinse già dall’età di 23 anni, onde sottrarsi alla provincialità dell’Italia risorgimentale, così come per assecondare i suoi interessi botanici. Per quanto il Sudamerica fosse diventato nel tempo la sua terra d’elezione, guadagnandogli l’appellativo di “Marco Polo del Brasile”, viaggiò in lungo e in largo senza mai mettere veramente radici.
Prima che in Amazzonia scoprisse le incredibili virtù farmacologiche del chinino e della cicona, potenti antimalarici di cui i saccenti Positivisti del periodo pensarono di fare a meno sin quasi ai nostri giorni, fu però l’Oriente a tenerlo a lungo avvinto.

IN CERCA DI “ERBE E RUINE”
Le prime esperienze di Osculati maturarono infatti nei deserti dell’Egitto e dell’Arabia, nella Siria e nell’Asia Minore, dove si recò nel 1831; tre anni dopo, appena tornato dal Levante, partì subito alla volta dell’America Latina e, nel 1836, ultimata la navigazione su un bricco francese, giunse a Montevideo. Di là, in carovana, superato l’altipiano dell’Uruguay infestato da nembi di zanzare e formiche volanti, giunse a Buenos Aires. Trascorse due mesi nella capitale argentina, spingendosi nelle semideserte Pampas per raggiungere l’altipiano di San Luis, punto attraverso il quale era possibile valicare la cordigliera delle Ande.
“I nemici erano pericolosi – ricorda lui stesso nelle sue memorie – tutti a cavallo, nudi i più, e con la lunga chioma, armati di smisurate lance di bolas, di lazos e di bastoni con cuspidi di ferro: e dietro di loro era una turba di donne, colle tende e coi fanciulli”.
Passato Valparaiso, s’imbarcò per il Perù, nella segreta speranza di trovare sul lido di Huacas qualche reliquia dei tempi di Pizarro: per lo più ossa e cadaveri “conservati assai meglio delle mummie ch’io aveva visto dissotterrare nell’Egitto tra le ruine di Menfi”.
Spintosi all’interno, Osculati dovette retrocedere per via della rivoluzione lì in corso, ma venne fatto prigioniero a Lima fino alla sua conclusione. Fatta allora vela verso l’Europa, cercò di ricominciare una vita di vocazione più borghese, ma l’insofferenza tipica del viaggiatore tornò a scalpitare presto in petto. Già nel 1841 partiva infatti col concittadino Felice De Vecchi per visitare la Persia e l’India.
Da Vienna, per la via fluviale del Danubio, si portarono a Costantinopoli e quindi a Tresibonda, costeggiando il Mar Nero. Seguendo una carovaniera trovarono Erzerun, in Persia, colpita dalla peste; passarono allora ai piedi dell’Ararat, monte su cui si posò la biblica arca di Noè, toccando il grande lago salato di Urma, poi Trebiz, dove invece scoprirono bizzarri concittadini impegnati in compiti sanitari. A Teheran si unirono ad altre carovane, onde proteggersi dai briganti, per approdare sul Golfo Persico bruciati dai venti. Con una nave francese si portano infine a Mascate, capitale dell’Oman, di dove su una sgangherata imbarcazione araba partirono alla volta di Bombay.
La traversata dell’Oceano Indiano fu disastrosa: falle continue, rese ancor più insidiose dalla rottura del timone che, con la bufera imperversante, pose la nave in balia delle onde. La ciurma in preda allo spavento lasciò le pompe e si mise a pregare Allah e Maometto; allora l’Osculati e il De Vecchi si avventarono sul capitano imponendo di far tornare gli arabi alle pompe, con la promessa di regali e la dispensa di pane e biscotti. Giunti finalmente nella grande città indiana, vennero ospitati con cordialità nella villa di un capitano inglese, e dopo aver visitato a lungo la zona di Bombay, partirono per Suez. Raggiunta Alessandria, s’imbarcarono per il ritorno toccando la Grecia, Ancona e Trieste.
“Appena reduce da quelle remote regioni d’Oriente – tentò di giustificarsi ai posteri – schivo di poltrire in ozio per me letale, mi decisi ad intraprendere il viaggio di circumnavigazione, nell’intenzione di percorrere le province dell’Indostan…per quindi perlustrare quegli arcipelaghi della Polinesia che ancor lasciano tanto a desiderare al geografo e al naturalista…”.
Non andò troppo lontano. La sua nave si incendiò appena raggiunto l’Atlantico, per lasciarlo “solo e quasi spoglio delle principali risorse”. Senza perdersi di coraggio prese allora un’altra imbarcazione per New York, e dopo aver visitato gli Stati Uniti ed il Canada, già stava per effettuare il progettato viaggio nell’Occidente, quando una forte burrasca spazzò di nuovo via parte del carico e gli avariò il rimanente.

LA TERRA FATALE
Cambiò allora idea e decise di attraversare l’istmo di Panama per raggiungere Quito, la capitale dell’Equador, in vista del fiume Napo, che avrebbe percorso dalle sorgenti alla foce nel Rio delle Amazzoni, per inoltrarsi poi nel cuore del continente e sbucare sull’Oceano Atlantico.
“Ardita, anzi temeraria impresa, superiore di troppo alle forze dell’individuo, perché oltre che l’esplorazione di regioni inospiti e quasi del tutto sconosciute, si dovevano incontrare tribù indiane ritenute tra le più crudeli e selvagge, sempre in guerra tra loro, aborrenti da qualsiasi arte della civiltà, date alcune all’antropofagia, celebri soltanto nella scienza di filtrare veleni e di massacrare nemici”.
Nonostante queste traversie, Osculati riuscì a portare a termine la sua più grande impresa, “nutrendosi di frutta e carni di tapiri e di scimmie appena rosolate”, ma soprattutto rilevando un fenomeno che avrebbe potuto cambiare il corso della storia.
Durante il suo terzo viaggio in Sudamerica si era infatti imbattuto in una zona miracolosamente indenne dalla malaria: dopo aver compiuto numerosi rilievi geografici, geologici, fisiografici e botanici (annotando fra l’altro la piaga del commercio fraudolento di alcune piante officinali), iniziò ad interessarsi sempre più della salsapariglia e del chinino, raccolte nella fetta di foresta al confine fra Perù, Equador e Brasile.
Come ha precisato l’esperto di botanica Francesco Bubbico, “con il termine salsapariglia si indica la radice di alcune specie del genere Smilax; piante rampicanti monocotiledoni delle Liliacee, tipiche delle regioni paludose centro-sudamericane. Sono caratterizzate da piccole foglie spicciolate, simili a quelle dei dicotiledoni più evoluti, con margine intero e nervature reticolate. I loro fiori sbocciano in piccole infiorescenze ascellari, mentre il frutto generato è una bacca. Di queste piante la parte più preziosa è rappresentata in realtà dalle radici, che polverizzate liberano diverse sostanze saponine (smilasaponina, sarsasaponina e parillina), venendo spesso bollite per ottenere un estratto depurativo per il sangue (impossibile da ricavare attraverso l’analoga specie mediterranea della Smilax aspera, priva di principi attivi)”.
Per quanto riguarda la Chincona, si tratta invece della pianta utilizzata per ottenere le cortecce di china. Ha foglie opposte, brevemente spicciolate, con una corteccia arrotolata di spessore compreso fra i 4 ed i 9 millimetri, nonché un profumo debolmente aromatico. Al suo interno si trovano diversi alcaloidi (di cui la chinina ne è appunto uno), preziosissimi per la cura della malaria. Non a caso il nome Chinchona viene da quello della Contessa di Cinchon, moglie del viceré del Perù, guarita dalla malaria grazie probabilmente alle polveri della corteccia di questa pianta. Sorte vuole che solo essa abbia trovato fortuna in Europa sin dal 1639, venendo apprezzata come “polvere della Contessa” o “polvere dei Gesuiti” (suoi principali divulgatori).
Gli studi di Osculati avevano perciò individuato un’alternativa efficace per spezzare il monopolio del chinino, rifacendosi all’utilizzo di una pianta apprezzata da secoli dalle popolazioni indigene dell’area del Rio Napo, sotto il nome di Yaual Chunca.
Nonostante la pubblicazione di un testo miliare come le “Esplorazioni delle regioni equatoriali” del 1854 (di cui si conserva una copia autografata proprio nel museo civico di Biassono), il mondo della botanica e della medicina snobbò completamente il suo contributo.
Ancor più amari furono però gli anni.a venire.
Del suo ultimo viaggio del 1857, quello nell’Indostan e nella Cina, non si è neppur conservata alcuna testimonianza scritta: a causa del disordine dell’editore milanese che ne avrebbe dovuto curare la pubblicazione, il testo originale andò infatti perduto.
La scomparsa dell’esploratore, giunta di lì a breve, non rese così giustizia alla modestia di un uomo che girò per il mondo senza alcuna sovvenzione pubblica o privata: spentosi a Milano il 14 marzo 1894, si vide persino misconosciuta dal Bollettino della Società Geografica italiana del 1881 la priorità della scoperta del Rio Napo, attribuita invece ad un francese (nonostante solo un anno prima l’Imperatore del Brasile si fosse compiaciuto con l’esploratore delle “sue terre”). Per fortuna ci pensò Re Umberto I a lenire l’amarezza del povero Osculati, conferendogli la croce di Cavaliere dell’Ordine Mauriziano, molto prima che Milano e Biassono gli dedicassero rispettivamente una via.

“Ed infine citeremo quest’aneddoto; – ha ricordato Luigi Viganò, curatore di un articolo a lui dedicato sull’antica rivista “Brianza” – l’Osculati, sbarcato a Venezia e ricoverato al Lazzaretto in quarantena, perché proveniente dal Lavante (regione infetta da peste orientale), venne alloggiato in un sudicio ed umido ripostiglio, senza un giaciglio. Lo stambugio dava sopra un cortile isolato a ridosso della camera mortuaria, dove trovavasi in deposito il furgone, verniciato in catrame, decorato di teschi e tibie, adibito all’estremo trasporto. All’Osculati balenò subito l’idea di servirsene per fusto da letto, e approfittando dell’assenza del guardiano, tirò lestamente il carro nella sua stanza (veicolo che pochi giorni prima aveva trasportato gli appestati), vi pose senza complimenti il suo stramazzo e vi si cacciò dentro fumando allegramente”.


Il gesto provocatorio costò all’Osculati quasi una denuncia per trasgressione ai regolamenti sanitari, ma la sua giustificazione concluse lo screzio in una burla. Proprio la stessa sorte che il destino pare avergli poi inflitto.


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