"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

sabato 19 maggio 2007

IL NODO ALLA GOLA…DI TODRA’


Ouarzazate - A volte le parole crepitano. Bruciano velocemente. Hanno un che di ludico e fatuo, per via del quale il loro significato si fa fumo senza lasciar traccia, se non quella di un suono più cupo o più brillante. Un pentagramma a venire, dove inspiegabilmente l’ordine del discorso si sfalda nel richiamo primigenio, per sprigionare quel calore istintivo che abita lo stare insieme dei beduini. L’ossitonia ridondante della lingua francese, ancor più che il berbero, ne è forse la riprova più manifesta, ma qualunque verso lasciato sfuggire lungo una carovana di cammelli, sotto sotto, riesce a rendere meno siderea la notte del deserto marocchino.



Non rimanere in silenzio è quasi un obbligo morale. Una necessità imperscrutabile. Si deve parlare per mantenere vivo qualcosa. Il senso di appartenenza. Il principio d’identità. L’idea del tempo.
Boutade, singulti, sciocchezzuole, tutto è ben accetto. Rendono meno vertiginose le discese lungo le dune, ne modulano l’ondivaga casualità, ed aiutano a non guardare indietro, così come a non interrogare l’orizzonte a fronte, perché mai oscurità completa è concessa fra le sabbie sahariane.



Dentro al silenzio la voce smarrisce la sua musica frastornante. Ti inchioda alla responsabilità di un pensiero che non si pone limiti, che ritrova tutte le possibilità, fra cui quella inevitabilmente fuggita, occultata, imbavagliata. La morte.
Il posto in coda alla carovana è appunto il più temuto. Persino i cammelli paiono presentirlo e si ribellano. Allungano il passo per appaiarsi ai loro compagni più fortunati, ma i tremolii delle zampe ad ogni affondo nel vuoto, l’angoscia dell’asma risvegliata dalla fatica, tradiscono le più innocenti confessioni dell’istinto, della volontà di rimanere al mondo. Nel mondo. Dietro, infatti, non c’è più nulla. Neppure la linea che separa la terra dal cielo. La polvere ne ha dissolto i colori, stemperato le forme, ha amalgamato il tutto nell’indefinito, aprendo uno sguardo sul pozzo abissale da cui ogni cosa ha avuto origine. Anzi, deve aver avuto origine.
Solo il dubbio che laggiù non ci sia un barlume di ragione strozza improvvisamente il respiro dei polmoni, chiude tutti gli spazi per quanto attorno non ci siano pareti, condannano alla claustrofobia del sé smarrito e abbandonato. Tragica ironia di un mondo che non ha bisogno di noi, del quale siamo partecipi solo per errore chimico. L’uomo di mondo, di questo mondo fatto di parole anziché di voce, non può accettare l’assurdità dell’eterno privo di senso.



Eppure è tutto ciò per cui si batte sino all’ultima goccia di sangue. Così ha fatto il berbero sin dai tempi in cui si opponeva alla civilizzazione di Roma, alla conversione di Uqba bin Nafi, alla corazzata del Kaiser. Darebbe qualunque cosa per lasciare una traccia, un segno, un indizio che sia per sempre, ma il taglio del tempo è comunque figlio della storia. Ben diversa è la natura, che assorbe l’uomo come una ferita da rimarginare, ne cancella la cicatrice e fa sì che non sia mai esistito se non nell’illusione altrui.
Ecco allora perché il fuoco dell’accampamento beduino cui si ripara scalda più di un abbraccio materno. Fa luce sui lati bui della coscienza. Ricaccia indietro la mano del bau bau cattivo che si annida nella notte. Ridà equilibrio all’ebbro volo dell’anima in libera caduta.



Le tende fanno quadrato acquietando il respiro dei cammelli, mentre il gorgoglìo del tè alla menta, che si tuffa da un bicchiere all’altro per addolcire la sua carezza, rievoca la cieca familiarità di un fonte salvifica. Quindi l’ipnosi dei canti gnauà, la frenesia dei corpi che possono infine stemperare tutta la tensione accumulata nell’incalzare dei tambureggiamenti, l’attesa del sonno fissando gli enigmi delle stelle, affinché il silenzio, quel silenzio, possa davvero esser tale. Muto. Inconsapevole. Puro dalle rughe del tempo.
Per un berbero è già troppo. Spingersi oltre, insistere per giorni e notti alla ricerca di un fondo che non si dà, fa davvero paura. Il berbero non è il tuareg. Si ferma alla prima duna sabbiosa del Merzouga, sta sulla soglia: lancia lo sguardo verso l’oceano di sabbia rossa, ma rimane saldamente seduto sulla sua vetta a mangiare datteri e cous cous. Ha bisogno di una terra dura da calpestare, magari scabra e secca come quella che insidia i monti vulcanici dell’Alto Atlante, ma pur sempre solida. Il berbero parla, pone domande come ogni buon sedentario, ma a differenza del tuareg non trova vere risposte. I suoi quesiti hanno il volto della Città d’Orione, della Scala Celeste o della Spirale d’Oro.



Follie illuministe dell’architetto tedesco Voth Hannsjorg, le installazioni create nel nulla che insidia le gole di Todrà rappresentano infatti il disperato tentativo di ritrovare un chiasmo esistenziale, una biunivocità di significati che rafforzi il sé davanti allo specchio. Poco importa che siano frutto di un lavoro ventennale, avviato nel lontano 1980. La loro potenza iconica vanta l’età dell’archetipo e l’inappellabilità della geometria: sette torri di argilla si protendono verso Riguel, Saiph, Mintaka, Almitak, Alnilam, Bellatrix e Betelgeuse, quei remoti diamanti incandescenti che sono guida nei cieli e ambigua promessa di verità. Un triangolo di 28 metri d’ipotenusa indica la via per l’infinto, nonostante la salita titanica appaia fuori dalla portata dell’umano passo. Attorno ad un punto si snoda un vortice di cifre che risultano essere l’una la somma delle precedenti due, inno solitario alla velenosa medicina della matematica.



L’ostinazione dell’uomo è tutta qui: ancor più esuberante delle mille kasbah dal profilo di gatto che si è impegnato a costruire lungo la valle del Dades, plasmando il fango come un dio ferito dalla solitudine; ancor più spinosa e seduttiva delle mille rose che profumano la lunga strada di oasi a cui danno il nome; ancor più sprezzante della verticalità rocciosa di Doigts de Singe, al cui cospetto le donne piegano la schiena sotto la fatica dei panni da lavare e delle fascine da trasportare.





Perché allora non si vede anima viva in questo tempio pagano dell’ardire metafisico? Per quale motivo tacciono le tribù riparate all’ombra dei palmeti di Tazzarine e si nascondono gli abitanti di Tamnougalt negli stretti vicoli della loro secolare fortezza? Ormai le lotte fra fazioni che incediavano il medioevo berbero per il controllo delle rotte commerciali sono alle spalle. I piaceri proibiti di John Malkovich ne “Il tè nel deserto” noti a milioni di cinefili. Né le ragazze hanno bisogno di farsi desiderare sino al Moussem, antica festa nata per onorare gli infelici amanti Tislit e Iseli: lacrime di una passione divisa e poi scioltasi nei due laghetti locali, presso cui la giovane femmina si fa cacciatrice in abiti seducenti, affinché alla sua porta bussino donatori di montoni e pane azimo per riscattarne la matura bellezza. Altri sono i tempi.



Perché tutto questo teatro a Tifoultoute, dove ancora si stagliano le spoglie di lungometraggi di successo, benché subdolamente menzogneri? Qui hanno fatto credere alla rivelazione dei “Dieci comandamenti”, all’epopea di “Re Salomone”, all’esistenza di “Asterix ed Obelix”.



Per le aride piane che si aprono oltre le case di fango e le torri merlate di Ouarzazate si è voluta tradire una verità non vera. Proprio come fece quella deliziosa fanciulla di nome Najia, che coperta dall’oscurità delle candele e dall’abbandono ai suoi massaggi, scrisse il proprio nome con l’henné sulla schiena di uno straniero riparato in un hammam.



Estrema volontà di possesso, per un segreto che non si ha la forza di pronunciare. Un segreto che profuma di eucalipto e fiori d’arancio.

1 commento:

Anonimo ha detto...

FANTASTICO COME SEMPRE! FORZA ALBERTO! SARA.