"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

domenica 22 aprile 2007

L'AMOR PAGANO


Aveva ragione Lucrezio. Lei è davvero ovunque e in nessun luogo. All'alba dell'era cristiana, il “De rerum natura” non disperava di dare un volto alla divinità, ma già appariva consapevole di quanto sfuggente e metamorfico questi fosse: “te, o dea, te fuggono i venti – cantavano i versi dell'epicureo poi tragicamente suicida - te e il tuo primo apparire le nubi del cielo, per te la terra industriosa suscita i fiori soavi, per te ridono le distese del mare e il cielo placato risplende di luce diffusa.

Non appena si svela il volto primaverile dei giorni e libero prende vigore il soffio del fecondo zefiro, per primi gli uccelli dell'aria annunciano te, nostra dea, e il tuo arrivo, turbati i cuori dalla tua forza vitale”.





Oggi la sua presenza è ancor più insistente e rarefatta. La evocano persino i poggiatesta della Cyprus Airways, i nomi degli alberghi, i piatti di feta ed olive aromatizzate, gli scogli della costa. Eppure Afrodite non si concede ad occhio profano. Lascia dietro di sé solo scie di profumo, liberato dagli oleandri in fiore, sprigionato dai gelsomini, esaltato dalle calle, pizzicato dal rosmarino e dalle mimose.

Qui accenna. Là rimanda. Ancor oltre ammicca. Chiunque metta piede sull'isola dei divini natali incorrerà tutt'al più nel destino dei primi adepti, per i quali non era l'ara votiva del tempio di Palae Pafos (l'odierna Kouklia) ad incarnare il segreto della Bellezza, bensì la rigogliosa magia dei prati coperti di rose e di alberi da frutto, che passo dopo passo seducevano i fedeli lungo il cammino per le abitazioni di Geroskipou. Nome dall'arcana verità tradotta: “antico giardino”, appunto; luogo di delizie in cui lo stesso filosofo Epicuro avrebbe riconosciuto la scintilla del pensiero e il fremito del desiderio.



Più volte gli antichi miti hanno insegnato che nessuno sguardo mortale potrà mai sostenere la visione di una dea nuda, ma nell'ambigua verità dei fiori di macchia si cela assai più: il fondo delle anemoni selvagge e dei subdoli papaveri è infatti amaro come assenzio, perché ancora parla della scomparsa di Adone, giovane amante di Afrodite piegato dalla rabbia di un cinghiale. Non sarebbe così scarlatto il rosso dei loro petali, se questi non fossero imbevuti del sangue della sua ferita mortale; né apparirebbero tanto candide le corolle dischiuse, se non conservassero l'innocenza del pianto in cui la dea si sciolse inconsolabile. Come corda dal doppio lembo, tendendo alla vita, il desiderio non può fare a meno di portarsi appresso la morte. Dietro il volto luminoso di Afrodite si staglia quello inquietante di Dioniso e delle sue Menadi assassine.



Non a caso nella festa primaverile di “Anthestina”, l'ebbrezza dell'amore si fonde con quella del vino: da Pafos a Lesmenos, da Germasogeia a Larnaka, giovinetti incoronati di foglie di viti raccolgono petali di rosa in canestri da processione ma, nelle loro dita, stringono inconsapevoli la promessa del fiore proibito: l'Athanatos, l'immortale.

L'uomo ha fatto di tutto per lasciar traccia di sé a Cipro. Oltre diecimila anni di storia riaffiorano dalle spire della terra, così come dai gorghi del mare. Insediamenti neolitici, idoli della fertilità risalenti a quasi quattromila anni fa, gioielli di rame che testimoniano l'ineguagliabile ricchezza delle miniere dell'isola insidiata dai Micenei; e ancora, la nascita del culto della Dea ai tempi delle dieci città-stato, gli echi dei fatui imperi d'Oriente e d'Occidente, il cammino rivelatore di S. Paolo, l'orgoglio iconografico di Bisanzio e la famelicità dei Saraceni. Amori ed odi si sono intrecciati instancabilmente in questo crocevia di tre continenti, celebrando fasti nel matrimonio di Riccardo Cuor di Leone con la bella Berengaria di Navarra, al ritorno dalla terza crociata, così come terribili lutti, quando le scimitarre ottomane fecero a pezzi i sogni di Venezia e il povero Bragadin venne scorticato come pelle da concia.





Ma è ai nostri giorni che la dea è tornata a far parlare di sé sotto nuove vesti, dopo aver resistito ai castighi vittoriani della dominazione inglese: quella soglia che corre nel cuore di Nicosia sino alle propaggini della costa, mettendo ancor più di rimpetto Greci e Turchi dal giorno dell'infausta invasione del 1974, non è uno dei tanti muri che la storia ha eretto per costruire mondi opposti. E' piuttosto il sigillo di una promessa, il sospiro di un sogno che fa battere i cuori e infonde slancio a vite dimentiche di sé.





Senza anelito, cosa mai sarebbero le colonne interrate delle tombe tolemaiche a Pafos, se non scheletri nel corpo macero della terra? Senza nostalgia, cosa mai sarebbero le dorate auree dei monasteri di Agios Neofitos e degli schivi monti Trodòs, se non illusioni bidimensionali? Senza rimpianto, in cosa mai consisterebbe la bellezza ritrovata nei bagni di Afrodite, la schiuma rigeneratrice dei flutti infranti sulla Pietra del Greco, l'eco lontana dell'anfiteatro di Kourion o ancora il segreto dei mosaici in cui Narciso si ostina a specchiarsi e Poseidone a levare con rabbia il suo tridente? Niente più che scorie di un passato ineluttabile, capace solo di ricordarci la vanità del nostro cammino e l'effimero dell'umana gloria.







Eccolo il dio ambiguo. Eccolo di nuovo occhieggiare dietro il sole accecante dell'isola, come una nuvola inaspettata che spegne il calore dell'estate e ricorda i brividi del mare in tempesta.

Non sarà certo il lancio di bicchierini di grappa Zivania, durante un addio al nubilato, a cancellare il terrore dell'immagine di Dioniso fatto a pezzi; non sarà l'accanimento dell'uncinetto di una vecchina a tenere saldi i puntocroce dei pizzi di Omodòs, quando la moira Atropo deciderà d'impugnare le sue lucide cesoie; né saranno i sirtaki per le vie di Agia Napas ad ottundere le nostre orecchie al lamento del tempo che mai più tornerà. Niente di tutto questo.







Solo lei sarà una volta ancora la nostra benefattrice. Forte del suo irresistibile cinto, trasformerà ai nostri occhi splendide fanciulle in divinità da adorare, corpi mortali in abbagli d'Olimpo, allontanando con una carezza l'angoscia di non ritrovar più l'accesso alla sacro ventre del desiderio. Al pozzo della vita, dove la furia distruttrice delle spade d'Ares s'azzittisce nel liquido spasmo del piacere.

“...e fa' intanto che le feroci opere della guerra per tutti i mari e le terre riposino assopite. Tu sola puoi infatti gratificare i mortali con tranquilla pace, poiché le crude azioni guerresche governa Marte, possente in armi, che spesso rovescia il capo nel tuo grembo, vinto dall'eterna ferita d'amore, e così mirandoti col tornito collo reclinato, in te, o dea, sazia anelate d'amore gli avidi occhi, e alla tua bocca è sospeso il respiro del dio supino”.



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