"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

venerdì 1 settembre 2006

TRANSINDIANA 2006/3



FORTUNA E GLORIA...SHORTY...FORTUNA E GLORIA!

Incredible India! E sì, mai slogan promozionale ha colto più nel segno: l’India d’oggi è tutto quanto uno non si aspetta. L’immacolata lacrima del Taj Mahal, le note di sitar che ondeggiano sulle ceneri del Gange, il dolce profumo del loto dischiuso nel barrire mattutino degli elefanti, il sapore esotico del curry sulla pelle di viziose apsara: deja vu, cartoline di un terra miraggio che si pensa di conoscere da almeno sette cicli karmici, eppur capace di spiazzare meglio di una contorsione tantrica, impudicamente scolpita sui templi di Khajuraho. Si avviluppa su se stessa, intreccia miriadi e miriadi di corpi, sino a dar vita all’ennesima divinità tentacolare. Ma quale mai sarà la via da seguire?

Un braccio indica le vette himalayane disegnate dall’irrequieto Roerich, quelle che stanno sempre al di là dell’occhio, lo Shangri La ignoto persino ai ciarlatani di Varanasi; un altro allude alle piramidi variopinte del Tamil Nadu, dove gli dei fanno perdere il conto sostenendosi di gradino in gradino, nell’infinito mantra della ripetizione. E ancora, un dito punta sicuro verso le palme del Kerala, sotto le quali sinuosi massaggi dischiudono l’estasi ayurvedica, o addirittura alle incisioni rupestri del Madhya Pradesh, così arcane da far apparire la calata degli Ariani un comodo sipario sui baratri del sapere.

Semplicemente l’India cercata è quella che mai si trova, aleggia nell’aria, va fiutata lungo le olezzose scie della cardinalità nomade. Ed è forse per questo suo non rassegnarsi al soma perduto che la terra dei marahaja ha sempre troppa fame, troppa voglia di toccare l’interdetto. Oggi ancor più di ieri. Persino le ciotole di riso non bastano più, perché quando si assaporano le grasse delizie dell’Occidente, tutto il resto inizia a diventare indigesto. Anzi, non si guarda più in faccia a niente e a nessuno: né alle leggi di mercato, che vorrebbero domare le nuove tigri del Bengala, né tanto meno al dollaro in bermuda, che svolazza tutto gaio fra fogne a cielo aperto e baraccopoli di fortuna.

Eccolo qui il sogno finalmente a portata di mano! Meglio ghermirlo subito, piuttosto che vagabondare per strada, barcamenandosi fra i corpi di qualche vecchio storpio raggomitolato sul marciapiede; meglio spendere un sorriso con i pochi denti rimasti, per non sentirli di nuovo sbattere alle spalle, sotto i morsi di un digiuno colpevolizzante. Forse le scritte sulle banconote non sono chiare quanto i preziosismi sanscriti delle rupie, ma lo slogan dello zio Sam suona sempre lo stesso: “voglio te!”.

E allora giù dal risciò cigolante, che intralcia solo il cammino per il successo; al diavolo le api Piaggio, buone solo per martellare il clacson e chiamare tutti alla sveglia. Non è più tempo per restare sdraiati nelle pozzanghere, attenendo la morte con gli occhi stralunati. Non basta più offrire biscotti alla statua del buon Ganesh. Ci sono treni pronti a partire per la Bangalore dei microchip, così come per la Bombay dei sari evanescenti.

Non importa la via. Ad ognuno la sua, purché solo non si travalichino i sacri confini di casta: a tutto c’è un limite. Come se, alla fine, non ci si ritroverà a galleggiare verso la foce del Nirvana, svanendo piano piano nei vapori di un monsone subdolamente accecato. Incredibile India: una volta ancora, sfuggi…

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