"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 1 dicembre 2005

IL TAM TAM DELLA SIBERIA


Stregoni. Guaritori. Veggenti. Come già faceva notare lo storico Mircea Eliade nella sua monumentale opera, “Lo sciamanismo” (Ed. Mediterranee), sono molti i nomi e le funzioni riconosciuti ai medici della tradizione siberiana. Eclissatisi nel periodo sovietico, stanno piano piano riemergendo e riportando in auge una spiritualità animista mai sopita, oltre che metodi di cura di stampo olistico: danzano sino alla trance per ricercare i pezzi d’anima smarriti dai propri pazienti nei Tre Mondi, leggono il futuro passando le scapole di capra sulle fiamme, acquisiscono poteri dagli animali e dialogano con le anime dei morti. Giudicati pazzi e imbroglioni dai bolscevichi, gli sciamani vengono oggi considerati l’ultima àncora di salvezza dai fallimenti del razionalismo occidentale, oltre che il simbolo di un’identità etnica troppo a lungo schiacciata.

A volte ritornano. Relegati nelle appendici più remote della Russia asiatica, dalla Yakutia alla Buriatia, dall’Evenkia alla Kamcatka, gli sciamani dagli occhi a mandorla si sono infine scrollati di dosso 70 anni d’ateismo di Stato, ricacciando lo spettro del Comunismo in qualche defilato antro del Mondo Inferiore. Lotta lunga ed umiliante, che ha mietuto vite con la stessa ineluttabilità delle trebbiatrici rosse, cui la collettivizzazione per troppo tempo li ha costretti, sempreché fossero scampati alla morsa dei gulag: all’inizio del XX secolo, solo nei territori al confine con la Mongolia si contavano almeno 20 monasteri buddhisti occupati da quattromila lama. Dispensavano responsi, guarivano da gravi malattie e presiedevano ai solenni eventi delle rispettive comunità, stando spalla a spalla con duemila sciamani. Medici per antonomasia: del corpo, così come dell’anima.


Poi la luce degli stupa si è oscurata. I fuochi rituali si sono spenti. Le preghiere sono state azzittite. Ma solo apparentemente; perché sotto le ceneri ha continuato a covare quella fiamma della predestinazione sacra che, per divampare, attendeva solo il vento secco del sud. E’ arrivato da Ovest, ma ugualmente ha fatto terra bruciata di un credo che non voleva accettare la sua fine: oggi sono ben cinque le società sciamaniche di rilievo a Tuva, il cuore della rinascita degli antichi culti nomadi, e a loro fanno capo più di duecento affiliati, decisi a ristabilire il corretto equilibrio fra il mondo dei vivi e quello degli spiriti.


Ancora troppi spettri vagano inquieti per le lande del dolore. Lo sa bene Saylyk-ool Kanchyyr-ool, l’uomo al quale il padre lasciò in eredità cinque cicatrici sul collo a forma di zampa d’orso: animale di potere cui ha scelto di consacrare il proprio centro cultuale a Kyzyl, oggi capitale della piccola repubblica tuvina al confine con la Mongolia. Sa che in periferia c’è qualcuno che si lamenta. Urla per le paludi, lancia improperi, tende sinistre trappole. D'altra parte, sotto le acque mefitiche che lambiscono la cittadina siberiana sono annegate non poche vacche.

Loro pretendono rispetto ed attenzione – ammonisce con voce grave, mentre raccoglie legna per un falò sacrificale – perché nessuno li ha più ricordati da quasi un secolo a questa parte. Li hanno assassinati sotto queste betulle, contorte dal dolore, semplicemente perché non volevano credere alla parola dei bolscevichi, ma a quella dei loro avi. I loro corpi sono da qualche parte, qui sotto, nel fango, ma le loro anime non vogliono lasciarci soli. O forse, non vogliono restare sole”.

China il capo alla notte. All’orizzonte nessuno, ma chi ha occhi da Cosacco non vede mai bene. Veste un costume in pelle d’orso, da cui pendono piume d’aquila e lembi di cuoio simili a serpenti. Piccoli totem di metallo tintinnano sul petto. Preludio alla convulsa danza che il suo tamburo a tracolla sta evocando attraverso un antico canto alghisc: “Lascia che il tamburo risuoni e di nuovo il vento chiami; lascia che sgombri la soma della sofferenza, sino alla radice più profonda; lascia che il tamburo rulli la sua melodia e mormori il battaglio; lascia che l’inquietudine se ne vada col vento. Per sempre…”.


Saylyk-ool Kanchyyr ha abbandonato questa terra. E’ vero, ancor si muove davanti agli occhi dell’ordinario, ma i suoi passi non hanno più nulla di umano. Cambiano ritmo, non trovano appoggio, lo giocano a terra. I suoi occhi sono eclissati dietro lo strazio delle rughe. La sua voce è greve e distorta come il muggito delle vacche, appese per le costole sulle bianche piante della paura. Il suo indice è ritto, a dispiegare il vuoto di una ferita che solo la memoria potrà colmare.

Ma non sono solo gli spiriti dei vecchi pastori a chiedere un po’ di conforto, anelando il fumo delle primizie loro offerte sul fuoco. C’è chi fugge dal neon dell’Occidente, chi cerca una nuova via preclusagli dalla sordità della propria chiesa, c’è chi ha avuto paura di perdere il proprio potere, come il vecchio zar Boris o il suo pupillo Vladimir. Per Kyzyl sono passati in tanti. Forse troppi. Lo sciamanesimo non è mai stata la panacea di ogni male, bensì un laborioso tentativo di raddrizzare ciò cui la volontà ha mollemente rinunciato. Eppure qualcuno sembra essersene dimenticato. Oppure finge. Finge di non sapere.

Ay-Churek Oyun ha fatto della sua vocazione una professione. Sotto le piume del suo costume tiene in tasca un bigliettino da visita, tradotto in inglese e russo: “Chairwoman of the Centralized religious organization of Tuva’s Shaman Tos Daar”. E’ una sciamana con tanto di certificato internazionale. Quando non chiede soldi ai turisti in cerca di facili emozioni, organizza conferenze o simposi su problemi psico-spirituali in tutto il mondo. Stati Uniti, Francia, Svizzera. Persino in Italia. Non corre buon sangue fra lei e Saylyk-ool Kanchyyr-ool. Uno sciamano ha bisogno della sua terra per conservare i propri poteri. Altrimenti è solo teatro e parole. Chiacchiere e distintivo.

E a Kyzyl inizia ad esserci troppo rumore: sarà perché il concorso di Miss Tuva promette ogni Ferragosto di premiare la ragazza più bella della Siberia; sarà perché assistere al festival del Naadim è un po’ come proiettarsi al tempo di Gengis Khan e dei suoi arcieri a cavallo, ma gli sciamani – quelli veri - sono tornati a mettersi in cammino. Verso nord, lontano dagli strepiti, vicino alla montagna sacra di Buyan Tugad, diretti alla gola che si apre sull’isola di Olkhon, sperduta nel cristallino Bajkal; o ancora più in là, oltre i torrioni cambrici dell’immensa Yakutia, proprio là, dove ogni interrogativo s’azzittisce nel ghiaccio eterno. Quel ghiaccio che ieri soffocò la marcia dei Mammuth ed oggi spregia l’oro dei compromessi.


MA TUVA DOV’E’?

La Repubblica di Tuva è una piccola escrescenza della Mongolia che sorte vuole sia stata racchiusa in territorio federale russo, nel punto in cui la taiga cede il passo alla steppa. Protetta alle spalle dai monti Sayan, è abitata da circa 310mila pastori nomadi, che credono in una forma religiosa a metà strada fra lo sciamanesimo ed il buddismo. Per secoli è stata terra di conquista: di qui sono passati gli Uiguri della Cina, i Turchi dell’impero kirghiso, senza dimenticare il terribile Gengis Khan. Proprio il ceppo mongolico è quello radicatosi sul territorio con maggior insistenza, tant’è che i Tuvini sono considerati “cugini” dei Mongoli: parlano un dialetto affine, suonano i tipici violini moohrin khuur (“teste di cavallo”), cantano di gola e nei giorni di Ferragosto organizzano le piccole olimpiadi di Naadim. Corse a cavallo, lotta a corpo libero, tiro con l’arco intrattengono locali e turisti alle porte della capitale Kyzyl, presso il cui teatro municipale viene organizzato il folkloristico concorso di bellezza Miss Tuva. 

La città è anche nota per essere il centro geografico esatto dell’intero continente asiatico e, non a caso, conserva un singolare obelisco piantato da un misterioso inglese nel XIX secolo: segno che ne attesta l’accesa spiritualità. Possiede diversi centri di studio sciamanico, dov’è possibile consultarsi con “medici” che guariscono da ogni sorta di malattie e predicono il futuro. Dotata di alberghi di stampo sovietico, in seguito alla riscoperta del best-seller americano “Tuva or Bust” di Leighton, così come del fortunato cd di canti di gola “Voices from the distant steppe” (ripreso da Frank Zappa), da qualche hanno si sta aprendo al turismo di nicchia con una rete di bed&breakfast ed artigianali agenzie d’incoming (www.en.tuvaonline.ru). Oltre all’organizzazione d’incontri con sciamani, con tanto di traduttori multilingue, vengono proposte escursioni a laghi salati terapeutici e alle fonti sacre della regione (contraddistinte da pile di pietre e fazzoletti colorati, chiamate ovoo). Viene data anche la possibilità di pernottare nelle tradizionali tende a cerchio chiamate “yurta”, apprezzando la cucina dei locali e le loro esibizioni di canto.

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