"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

lunedì 14 novembre 2005

DANZANDO CON GLI SCIAMANI/3




KALAMNIE!

Non c’è modo di conoscere davvero, se non viaggiando. Per gli sciamani siberiani il viaggio è tuttavia qualcosa di assai differente da quanto noi intendiamo; non a caso manca un termine appropriato per tradurre il loro concetto di “kalamnie”. Difficilmente se ne viene a capo, se ci si accanisce ad inseguire per taighe solitarie e steppe desertiche le scorbutiche guide spirituali yakute. Al fine di poter accedere ai veri “riti di passaggio”, non basta sborsare qualche dollaro in uno dei posticci centri sciamanici che stanno affiorando nella “nuova” Russia, ma sottoporsi ad un lungo apprendistato presso i maestri di Tuva, altra piccola repubblica sul confine nord-occidentale della Mongolia, universalmente riconosciuto come centro geografico dell’Asia, esattamente come polo propagatore dello sciamanesimo stesso.

Insieme a Kara-ool Dongun, attempato tuvino che ancora porta sul collo l’impronta della mano con cui il padre gli ha infuso i propri poteri rituali, nonché consulente di Elsin e Putin, ho dovuto così trascorrere lunghe notti ad imparare a riprodurre i richiami degli animali delle foreste, onde acquisire fisicamente le loro virtù; ad assorbire la linfa vitale ed il ritmo della natura avvinghiandomi nudo sulle betulle, ad inalare fumi di licheni bruciati per purificare il mio corpo, a confezionare “eeren” (cioè feticci in cui esteriorizzare il nostro doppio) con stoffe e sostanze organiche. Al termine di prove sempre più bizzarre, è però giunto il sospirato invito.

In una notte di plenilunio sono stato condotto nelle paludi fuori Kyzyl, la capitale di Tuva, ove teschi e carcasse di vacche appese alle piante segnalano la presenza di un sito sacro in cui vennero assassinati due pastori. Dongun lo ha saputo attraverso voci ascoltate in sogno, mentre dormiva in quel luogo; le ricerche poi condotte in città gli hanno confermato l’omicidio lì commesso oltre ottant’anni fa da un gruppo di bolscevichi, contrari alle “superstizioni” dei locali.

Dopo aver acquistato salami, latte e biscotti da riporre in un altarino di legno costruito al centro di un ovoo, il cerchio sacro dove evocare con libagioni gli spiriti trapassati, Dongun si è trasformato insieme alle fiamme votive. Con indosso un costume di penne di falco e pelle d’orso, ha iniziato a suonare il proprio tamburo ad un ritmo sempre più frenetico, danzando scompostamente e intonando gli antichi alghisc tuvini. Ebbro di fumi, col sangue che pulsava nelle tempie sin quasi a scoppiare, la voce deformata in suoni spaventosamente baritonali, Dongun è caduto a terra contorcendosi con gli occhi ribaltati, la bava alla bocca. E l’indice sinistramente alzato. Nella notte tuvina non eravamo più soli.

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