"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 11 novembre 2004

LA VIA DELLA SETA



SULLE ORME DEL BRUCO BOMBIX

L’idea di raccontare un viaggio lungo l’antica “Via della Seta” è nata in cella. Quando una burbera guardia di confine mi intimò di sedermi dietro le sbarre della caserma di Atyrau, una polverosa e sperduta cittadina nella steppa kazaka, pensai che sarebbe stato meglio far tesoro della mia esperienza e dispensare qualche consiglio in più a chi considera ancora l’Asia Centrale un buco nero dell’atlante. L’originario intento dello scorso viaggio estivo, che da Stalingrado avrebbe dovuto condurmi a Tash Rabat seguendo le orme del barone Ferdinand von Richtofen (colui che nel 1870 coniò appunto l’espressione “Via della Seta”, per raccogliere sotto lo stesso nome le rotte carovaniere di collegamento fra Europa e Cina, attraverso Russia, Uzbekistan e Kirghistan) consisteva nello sciogliere un dilemma esistenziale debilitante, scoprire cioè come il bruco Bombyx fosse potuto arrivare a Biassono: i gelsi presenti nelle antiche corti del paese sono infatti le ultime vestigia di una tradizione che, forte degli scambi sviluppatisi fra Occidente ed Oriente a cavallo del IV secolo a.C. ed il XVI d.C., diede avvio ad una cultura contadina della seta riccamente testimoniata dai reperti del museo civico “Carlo Verri” (www.museobiassono.it).

Raggiungere città leggendarie come Samarcanda, Bukhara o Khiva costa però oggi almeno tanta fatica, quanto un tempo ne sudarono Marco Polo e i suoi successori, costretti ad attraversare le sabbie infuocate del deserto del Karakum, o le inarrivabili Montagne Celesti del Tien Shian, pur di barattare lana e vino nostrani con i preziosi beni del Gran Khan (fra cui abbondavano porcellane, spezie e tè).

Fatica eccezionale, per lo meno per il viaggiatore indipendente via terra, cioè per chi rifiuta di credere che simili tesori possano essere realmente a portata di mano con un volo di appena tre ore da Mosca. Purtroppo viaggiare in treno, con mezzi su gomma o cammelli può rivelarsi oggi una via d’approccio molto rischiosa: scoperto che i kazaki non permettono di attraversare il loro paese senza un visto di transito (a differenza di quanto sostengono i russi), dopo l’arresto mi ero rassegnato ad abbandonare il giornalismo per diventare un pastore nomade delle steppe. Invece con qualche colpo di fortuna ho infine potuto accedere al temuto Uzbekistan, paese che i figli dello zar dipingono ormai come una tana ove si è certi di essere sbranati dal presidente bifronte Kharimov, o dai suoi astuti concittadini. Inaspettatamente le maggiori insidie sono però giunte da una maledizione che grava sulla tomba di Tamerlano, l’emiro passato alla storia per aver messo a ferro e fuoco l’Asia Centrale fra il 1386 ed il 1395, ma il cui spirito continua a vivere nel minaccioso blocco di giada verde scuro conservato all’interno del mausoleo Guri Amir.

“Non bisogna avvicinarsi troppo alla tomba – mi aveva intimato Umet Ilyos, sufi custode di un altro sepolcro sacro di Samarcanda, quello dove le spoglie del profeta Daniele si sono allungate miracolosamente sino a raggiungere i 18 metri – perché chi ne smuove anche solo il coperchio, è condannato a scontare terribili pene, proprio come capitò allo sciagurato condottiero Nadir Shah: nel 1740 cercò di portare in Persia la tomba, spezzandola in due e mettendo a serio repentaglio la vita del figlio, finché disperato non restituì la reliquia”. L’antropologo sovietico Mikhail Gerasimov fu ancora più sfortunato: in seguito alla violazione della sacra tomba per studiare i resti del tiranno, il giorno successivo, cioè il 22 giugno 1941, i nazisti invasero addirittura l’Urss. Pare fra l’altro che lo scoperchiamento comporti la reincarnazione sulla terra di un nuovo conquistatore sanguinario, oggi identificato da molti uzbeki con Bin Laden.

Sarà per il fatto che quell’ammonimento mi arrivò troppo tardi, ma il viaggio per Bukhara e Khiva finì per trasformarsi davvero in un’odissea. Durante la notte il farraginoso bus d’epoca sovietica che mi aveva caricato a bordo perse il motore, mentre al ritorno il mio taxi “Zigulì” vide sganciarsi letteralmente una ruota, finendo quasi per ribaltarsi nel deserto dopo un terribile testacoda. Probabilmente avrei dovuto comportarmi come i saggi pastori kirghisi.

“Se non si rende onore agli spiriti dei balbal – mi aveva successivamente illuminato Toktogul Jumabekov, una guida del progetto kirghiso-svizzero “Vita del Pastore”, mediante cui, dal 1997, i turisti indipendenti hanno la possibilità di albergare nelle tende dei nomadi per calarsi nel loro stile di vita – il cammino umano diviene difficile ed insidioso. E’ per questo che noi versiamo latte sulle antiche lapidi di pietra sagomata che affiorano nella steppa: per quanto possano essere dedicate ai guerrieri caduti nelle più antiche battaglie avvenute in Kirghistan, quelle del khanato di On Ok, risalenti al VI secolo d. C., gli sciamani dicono che la loro protezione può aiutarci anche oggi”.

Chiusi nelle vallate del Pamir, le cui vette orbitano attorno ai 7000 metri, i kirghisi sono riusciti a far sopravvivere tradizioni antichissime persino al dominio sovietico: a Kochkor, così come a Tash Rabat, le donne continuano a cucire a mano i tappeti “shyrdak”, ottenuti con un processo di sovrapposizione di disegni a mosaico su strati di lana differenti ed utilizzati come decorazioni interne delle yurta (le tipiche tende circolari di feltro dei nomadi); il cibo più diffuso resta il “kymuz”, bevanda a base di latte di giumenta fermentato con erbe dal sapore alcolico, mentre per riconoscere i leader delle varie tribù ci si affida ancora a curiosi giochi “olimpici” che si tengono periodicamente negli jailoo (pascoli d’altura).

Di fronte alla mutilazione di una pecora che viene usata come palla insanguinata da due squadre di sei giocatori a cavallo (Ulak-Tartysh), all’inseguimento delle ragazze su scattanti destrieri per costringerle ad un bacio (e quindi al matrimonio) o, in caso di fallito aggancio, a frustare il mediocre amante-rapitore (Kyz-Kuumai), così come alla raccolta d’invisibili monete a terra senza staccarsi dal brado in corsa (Tyiyn Enmey), non è difficile credere che queste genti fossero gli alleati più fidi del terribile Gengis Khan. Ci sono voluti però oltre 5000 chilometri per capire come, in fondo, non si diano leggi capaci di piegare realmente l’indole umana. Un reduce pluridecorato di Stalingrado aveva cercato di spiegarmelo con una buffa storiellina all’inizio del viaggio, ma accontentarsi delle parole non basta mai.

“In nome di Stalin e Hitler – aveva infatti ricordato Sergej Beliakov, braccio destro del generale Yeremenko nella 62ª armata dell’esercito sovietico – sulla collina 102 sono morti quasi 1 milione 200mila soldati, numero che neppure il titanismo della statua qui dedicata alla Grande Madre Patria, alta più di 100 metri, riesce ad onorare. Loro sono caduti anche in nome dell’Urss o del Reich, ma oggi non ci sono più né l’una, né l’altro. E sai perché? Perché ha ragione Anatolij Gladilin”.

Secondo lo scrittore russo, dal momento che nessuno sa esattamente dove sia finito il corpo di Stalin, il giorno in cui la scienza proletaria avrà il potere di riportarlo in vita, lui tornerà sicuramente per pronunciare un discorso contro la corruzione dei costumi. Ma per quanto leader indiscusso, i politici in carica sapranno difendersi dal suo autoritarismo con sottile meschinità, inviandogli un semplice telegramma che reciterebbe: “il Polibjuro leninista saluta la miracolosa guarigione del glorioso dirigente, provato marxista, compagno Stalin! Il Comitato centrale ha tuttavia ritenuto inopportuno cooptare il compagno Stalin perché, com’è noto, la figlia Svetlana Allilueva è fuggita all’estero, ha tradito la Patria e ha compromesso in questo modo il nome del Capo agli occhi del nostro popolo. Spiacenti, ma le regole non si cambiano”.

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