L’ordine è perentorio. Non una
parola e tutti accucciati. All’ombra del Mont Brazza, d’improvviso il Gabon si
rivela di una solitudine immensa. Una scabra piana capace di lasciar sgomento
persino Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà, l’esploratore italiano che nel 1875 regalò
un impero alla Francia. Lontani sono i tambureggiamenti e le torce infuocate
della Fête des Cultures, quando a metà agosto i Fang, i Bakà, gli Tsogo e le decine di
altre etnie che popolano l’Africa equatoriale si riversano ululanti per le vie
di Libreville. Inimmaginabili i palazzi avanguardistici della capitale, fatti
di vetri scintillanti e torri asserpentate, figli di quel nero petrolio che da
oltre cinquant’anni fluisce dritto dritto nelle tasche della famiglia
presidenziale. Nessun profumo di croissant freschi, né champagne d’annata per dissetarsi.
Nel cuore della riserva di Lopé, ritagliata esattamente dove le mappe segnano
il centro geografico del Paese, non c’è spazio per capricci postcoloniali.
Anzi, gli sparuti cartelloni elettorali di Alì Bongo, succeduto al padre Omar da
“soli” cinque anni, sono un comodo bersaglio per le pietre scagliate dalle jeep
di passaggio. Ma la fortuna gira anche per i politici corrotti.
Ora siamo io e le due guide della
riserva un ben più facile target: spostarsi a piedi da una macchia di mogani
all’altra, attraversando in fretta e furia le ampie radure d’erba rinsecchita,
è ad alto rischio di carica.
Gli elefanti potrebbero imbizzarrirsi da un
momento all’altro, essendo a passaggio con i loro piccoli, mentre i branchi di
sitatunga pare abbiano solo voglia di testare la resistenza delle loro possenti
corna contro qualche curioso esemplare d’antilope bipede. «Non abbiamo molto tempo – bisbiglia
Edith, l’interprete troppo robusta per l’afosa savana di Lopé - Se il sole si leva, potremmo trovarci faccia
a faccia con le colonie di mandrilli o gorilla. A quel punto non saprei proprio
se sia meglio rifugiarsi nella radura o sotto le piante».
Problemi di traffico mattutino in
Gabon. Con la scusa per cui la riserva è una delle rare a consentire gli
spostamenti senz’auto, le poche jeep a disposizione vengono sempre abbandonate
nei posti più improbabili. Poco importa se tutt’attorno scorrazzino le più
grandi colonie di primati dell’Africa equatoriale, o qualche elefante si faccia
prepotentemente spazio per andare a succhiarsi i suoi 25 chili di sale quotidiano
in prossimità del fiume Ogooué. Non siamo certo a Loango, l’ultimo parco nazionale
creato per il sollazzo degli ippopotami che fanno surf sulla pancia, ma neppure
a Mayumba, dove sono invece le balene ad accogliere i passanti con esuberanti tonfi
sulle onde.
No, no. Più ci si allontana dalla costa, più il Gabon perde
contatto con la civiltà. Le fitte foreste d’ebano si riappropriano dei pochi
spazi loro sottratti dalla mano dell’uomo, le cascate sollevano le loro
roboanti risa di scherno, mentre la ferrovia devia intimorita verso sud, in
quella Franceville delle meraviglie che, oltre a conservare simulacri del suo
figliol prodigo Omar Bongo, si arrocca fra canyon dai colori impossibili.
Da
Lopé in su, all’interno dell’ipotetico triangolo che unisce le cittadine di Oyem
e Makokou, c’è spazio solo per le danze delle tribù pigmee e del loro spirito
della foresta Ezengi, per gli intagliatori di maschere consacrate al dio Mbudi
e Okuni, per i sei metri di spirali con cui il temibile rock python stritola le
sue prede e per il morso fatale della velenosissima vipera del Gabon. Là, lungo
il fiume Minkébé e i suoi affluenti, l’uomo non mette piede volentieri: tutt’al
più si spinge in canoa fino al salto di Kongou, il più imponente effluvio d’acque
che il cuore dell’Africa conosca, o accatasta enormi tronchi d’ebano da
traghettare sino agli estuari di Lambarènè e Port Gentil; sulla mappa i
territori del nord-est restano tuttora un buco nero di cui ben poco si vuol
sapere.
L’urlo di un mandrillo spaventato
riporta tutti alla cruda realtà. Col suo naso rosso fiammeggiante e i canini in
bella vista, non usa mezzi termini per segnalare il suo territorio. Batte il
petto e lancia occhiate con aria tracotante. Non si avvicina troppo, ma fa
capire pure che non indietreggerà. La riserva di Lopé è il suo regno e noi
siamo solo intrusi che tanto somigliano agli scimpanzé sospesi sui rami
più alti.
Non resta che ripiegare
accortamente sino all’auto abbandonata e filare spediti sino a Elarmekora, a
Lindili, o ancora un po’ oltre, verso Kongo Boumba ed Epona. In appena una
trentina di chilometri, fra la riserva e la polverosa città dei taglialegna
Ndjolé, il Gabon cela il suo tesoro più raro e prezioso: più di 1.200
petroglifi risalenti forse al Neolitico, forse a molti, molti millenni prima.
Sono disseminati per le sperdute radure lungo il fiume Ogooué, su massi
granitici spesso sepolti sotto le felci, e trovarli da sé è quasi impossibile.
«Stabilire una data certa non è per nulla semplice – osserva Saturnine,
raddrizzandosi il berretto di guida ufficiale di Lopé e sputando i semini di un
frutto tondo rubato ad un elefante – non
tutti i segni sembrano incisi con strumenti di ferro. Alcuni riproducono forme
geometriche, altri motivi animali. Si alternano insetti giganti e lucertole
contorte, quasi ad evocare le figure totemiche di antichi riti, ma neppure i
pigmei sanno più di che si tratta. Pare siano simbologie appartenute a tribù
ancora più remote, cacciatori nomadi sulla via che dall’Africa occidentale
portava alle vaste savane dei territori australi. Probabilmente mappe magiche
per propiziarsi un cammino sicuro». Probabilmente. I pochi studi
effettuati dal 1987 ad oggi non hanno offerto spiegazioni convincenti. Qualcosa
non torna.
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