"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 8 marzo 2012

VIAGGI DELL'ALTRO MONDO



A Komi hanno un diavolo per capello. Da quando è giunta voce che un bianco di Libreville sfrutta l’iboga per arricchirsi, il villaggio è un frenetico via vai di figliocci e nipoti alla casa di Tsanga Jean. Accorrono dal loro medico e sacerdote per sputare ai suoi piedi sdegnati, per urlare sfide rabbiose, per battersi il petto giurando cieca fede nel sacro viatico improvvisamente in pericolo: la pianta dei morti.

Bassé papà. Bassé. Un inchino e via. Chi bacia la mano, chi fa cadere nella calebasse per le offerte un biglietto stropicciato da duemila franchi. Occhio e croce saranno una decina di famiglie, sangue rimescolato del matrimonio del canuto Tsanga Jean con le sue sette mogli. L’elite di quelle genti della foresta di cui si proclama re, fra capanne in terra battuta e legni rappezzati. Komi è tutto qui. Somiglia a un bananeto come tanti altri, ma dietro foglie giganti e caschi di datteri cela uno dei tre più importanti templi bwiti di tutto il Gabon. Occhieggia a una decina di chilometri lungo la strada che da Lambaréné porta dritta dritta a Fougam.


«È sempre così – osserva grave l’anziano nganga – quando si condivide qualcosa di antico e prezioso c’è sempre qualcuno pronto a mercificarlo. Oggi è una sedicente associazione culturale, domani sarà magari un gruppo folkloristico che fa della nostra cultura un mero spettacolo d’intrattenimento. Ormai parlare della pianta dei morti è diventato di moda: ogni giorno si aprono nuovi centri di cura in Gabon, così come in altri Paesi dov’è possibile esportarla, badando solo alle virtù farmacologiche dell’iboga, ma senza mai prestare il dovuto rispetto alla sua natura divina. Eppure non esiste cura del corpo se non accompagnata da quella dello spirito».
La Tabernanthe iboga è molto più che una magnoliopsida ricca di alcaloidi e in grado di annullare ogni effetto di dipendenza da droghe o altre sostanze tossiche per il corpo umano. Originaria delle foreste centrafricane, dalla notte dei tempi è al centro di complessi rituali fatti conoscere dai Pigmei ai popoli del Gabon e del Camerun, attraverso i quali è possibile sperimentare un inquietante incontro con le anime dei defunti. Proprio per questa sua singolare virtù, che deriva dalla capacità di potenziare la percezione dell’uomo più che di alterarla nell’allucinazione, la pianta viene divinizzata e funge da viatico per il culto bwiti, “il potere della conoscenza”. 


«Dentro l’iboga sono custoditi i perché della vita – sussurra Tsanga Jean, mentre io e un giovane del villaggio gli veniamo presentati per il rito d’iniziazione - Sì. La pianta parla. Dice tutto. Basta essere capaci d’interrogarla. Ma occorre molta esperienza, oltre che grande prudenza. L’iboga sa anche punire con la morte o la follia chi non la rispetta. È un dono per tutti, ma non una merce. Mi domando perciò che cosa possano mai insegnare persone che badano solo ai suoi effetti più superficiali e ignorano di trovarsi davanti alle porte della conoscenza».



Non mi ha chiesto perché abbia scelto di mettere in gioco la mia vita. Non ha voluto ascoltare le mie lacrime e il mio dolore. Il rimorso e il pentimento per quello che non avrei dovuto perdere così presto. Tsanga Jean conosce già tutto. Lui parla coi morti e loro con lui. Tutti lo sanno a Komi, incluso il giovane al mio fianco, che neppure osa alzare lo sguardo al suo cospetto. Non si legge più alcuna ilarità sul suo viso. Non scherza più con gli amici vicini, né si permette leggerezza alcuna di fronte alla comunità accorsa per sostenerci nel cammino verso l’al di là. Dopo aver trascorso un’intera notte nel tempio, durante la quale gli abitanti del villaggio hanno riportato in scena il mito della scoperta della pianta, ora è tempo di guardare in faccia la morte.

Scrutiamo l’attigua capanna della fumigazione con un misto di riverenza e angoscia, mentre i confratelli ci spingono all’interno mormorando i versi di una litania celebrativa. «Ibogaaa…mmm…Ibogaaa…mmm…». Voci dietro e a fianco. Voci ovunque. Scompariamo in una nube di vapore e all’improvviso la foresta sembra un po’ più vuota. Gli strepiti dei mandrilli suonano più spaventati, più disperati, nella loro incolmabile distanza. Siamo soli.
Ed è già notte là sotto, nei rivoli di sudore che imperlano la nostra pelle e dai cui pori tracimano i regurgiti del peccato. Quando ne usciamo, il corpo nudo, e prima così baldanzoso, appare inspiegabilmente più insicuro. La luce ci infastidisce e occorrono mani decise per guidarci verso la riva del fiume. Mani che strattonano. Autoritarie. Dure nella loro imperscrutabile solennità. Camminiamo lenti sul sentiero, davanti a tutti, mentre un corteo di anime fasciate in nero e rosso ci segue pedissequamente, scuotendo nell’aria decine di ramoscelli della sacra pianta. E’ così che la morte ride?

Il maestro di cerimonia ci sta già aspettando coi piedi immersi nei gorghi delle acque battesimali: canta, canta anche lui lo stesso motivo inneggiante la sacra pianta, mentre con la mano sorregge una foglia di banano. Al suo interno si trova una manioca divisa in pezzetti, dentro cui il nganga ha dosato sapientemente la scorza di radice che permette di accedere al mondo dei morti. Uno. Due. Tre bocconi. La bocca di noi banzi si muove a fatica, senza più una goccia di saliva per deglutire, ma costretta a mangiare ancora. E ancora. Dobbiamo finire l’intera amara portata e non verremo immersi nelle acque sino a quando non saremo stati in grado d’ingoiare l’ultimo boccone. Poco importa se il viso si contragga in smorfie di disgusto e gli occhi tradiscano un’agitazione crescente. Dobbiamo mangiare. Eppure, dentro di noi, è come se qualcosa avesse preso a divorarci l’intestino, i muscoli, la carne, a tal punto che più forti si fanno i brividi e i tremori, maggiore è l’istinto di vomitare tutto.
Quando infine il maestro decide di spingerci sott’acqua e farci risalire il flusso da cui fummo generati, non siamo che canne al vento: ci accasciamo sotto la sua pressione, forse beviamo, forse perdiamo solo saliva, mentre i confratelli accorrono per legarci attorno i loro stessi lembi di lino neri e rossi, per allacciarci in vita una coda di zibetto e in fronte una piuma di pappagallo; per cingerci con una borraccia da viaggio, senza lasciar scoperto un solo lembo di pelle mentre sbriciolano polvere di caolino su tutto il corpo. Alla luce delle fiamme che tremano sulle torce di profumato okoumé, abbiamo ormai assunto le sembianze di un fantasma nella notte. Ci osserviamo straniati, perché i movimenti del corpo lasciano dietro di noi immagini in dissolvenza, mentre gli occhi sono bombardati da flash accecanti. Eccola, l’iboga. Sta arrivando. Sta per prenderci.



Sì. Siamo pronti per accedere al tempio, poco più di una tettoia in legno alle cui pareti sono assurdamente dipinte le stesse esatte scene che stiamo vivendo. Quasi l'anima avesse abbandonato il corpo e stesse fuggendo sotto il nostro sguardo allucinato. Oltre la scultura di un uomo e una donna che si fronteggiano nudi, ostentando ognuno il proprio sesso, barcolliamo verso un basso sgabello intagliato su cui abbandonare quel che resta del nostro corpo; su cui attendere che il vomito strappi dall’intestino anche l’ultima meschinità astutamente nascosta.
E uno. E due. E tre. Dio mio, com’è duro morire! I conati arrivano come onde devastanti, ci piegano con forza inusitata, sino a farci respirare la nostra stessa bile.



No. Non ci sono né se, né ma, una volta seduti di fronte allo specchio della verità: solo la piuma rossa di pappagallo appesa davanti al naso, nel punto in cui gli occhi sono obbligati a convergere, nel punto in cui il riflesso della nostra immagine perde piano piano dimensione, per riscoprire inusitate profondità. Tremiamo senza controllo. Ci contorciamo come vermi, mentre i riflessi si scompongono in linee di luce dall’aspetto ferino.   
Basta! Basta! Ancora manioca. Ancora iboga. Ancora vomito, brividi, convulsioni. Lo sciamannare dei sonagli in noce di cola è assordante. Il suono ossessivo del mogongo torna sempre sulle stesse note. I piedi tambureggiano impazziti, perché un villaggio intero è lì a urlare contro gli spiriti maligni, pronti a sottrarre quei corpi che hanno scelto di dividersi dall’anima loro.


Sì. Lo sento nella pelle d’oca. Nelle vampate di calore. Nella testa che rimbomba come una carcassa sventrata. Qualcosa di spaventoso sta per accadere. Da lontano voci sconosciute s’insinuano nelle urla dei cerimonieri e l’aria, di fronte alle pupille dilatate, pare guadagnare spessore, farsi lattiginosa e ondeggiante.
«Sono qui. Sono venuti per te. Guarda bene e li riconoscerai».
Così comincia l’inizio della fine.  Le ultime parole di Tsanga Jean sono una carezza di ghiaccio.




     

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