Il danno è fatto, ma nasconderlo è ormai impossibile. “Mon Dieu! Allez! Allez!”. L’acqua irrompe nella piroga con la violenza debordante di una cascata nella stagione delle piogge e René non ha neppure il tempo d’insultarmi. Mi spintona su un isolotto di fortuna, facendo segno di rimanere immobile. Come se da lì potessi andare chissà dove: alle porte del Minkébé, l’enorme parco transnazionale che il Gabon s’è ritagliato nel bacino idrico del Congo, potrei vagare per giorni senza incontrare orma umana. Al massimo quella di qualche gorilla delle western lowlands, ma non sarebbe comunque un buon segno: un bestione peloso di quasi due metri d’altezza per 180 chili, capace di spaccarti l’osso del collo con una semplice zampata, non è esattamente il miglior compagno di viaggio che ci si possa augurare. Nel cuore nero dell’Africa, d’altra parte, le insidie cospirano dietro ogni angolo: persino quando ci si agita su una piroga e si finisce per sfondarla nel tentativo di puntellarsi su un piede.
Niente. L’unica soluzione è attendere il ritorno di René, certo un tipo scorbutico e poco propenso ai compromessi, ma più coriaceo dei tronchi d’ebano in mezzo ai quali è già sparito. Immerso sino alla cintola fra alghe e radici contorte, si muove per gli acquitrini della jungla equatoriale senza curarsi troppo del futuro: potrebbe calpestare la temutissima vipera del Gabon, ritrovarsi un ragno Hyllus a pochi centimetri dalla giugulare, o peggio ancora scambiare un caimano in agguato per un tronco a mollo. Problemucci da primate di città. Il vero dramma, semmai, è non trovare una piroga di fortuna. Nella foresta gabonese ci si muove solo in due modi: o pagaiando sui fiumi, o lanciandosi acrobaticamente da un ramo all’altro.
Sperare in una parola di conforto è poi del tutto escluso. Cresciuto lontano da Libreville e Lambarené, gli unici due complessi urbani che il Paese centrafricano possa davvero vantare, René non somiglia per nulla al tipico gabonese: amante perduto della joie de vivre di coloniale memoria, un po’ indolente e del tutto disinteressato alla presunta ricchezza dei bianchi. Lui tiene la bocca chiusa, ma sa bene come allungare la mano al momento giusto. Pur essendo un membro dei Fang, l’etnia dominante fra i confini domestici, conosce perfettamente la lingua dei pigmei baka ed ha trascorso più tempo con loro che nel villaggio di famiglia, una manciata di catapecchie in legno meglio nota come Minvoul. Ancor oggi rappresenta la base migliore per avvicinare le prime tribù della foresta, quelle che hanno imparato a barattare i propri raccolti con qualche bottiglia di gin o con gli avanzi di vestiti sgualciti.
Per i baka il nomadismo dei loro avi è ormai un lontano ricordo: ogni mattina fendono le nebbie della jungla in cerca di larve o bacche, a volte infilzano una scimmia distratta, ma raramente se ne stanno rintanati per lungo tempo fra felci e liane. Il governo gabonese li ha alletta con gingilli ed umili lavoretti, usando un giorno la carota, un giorno il bastone. Non conoscere l’identità dei propri cittadini, non poterli contare, educare e sfruttare, non va assolutamente bene per un Paese che si considera il fiore all’occhiello delle ex colonie francesi. Ricco di petrolio e legname pregiato, dal 1960 si ostina in tutti i modi a dimostrare la legittimità della propria indipendenza, la grandezza del suo popolo di orgogliosi sedentari. Peccato continui a valere l’adagio del vecchio presidente Omar Bongo: “Il Gabon senza la Francia è come un’auto senza guidatore. La Francia senza il Gabon è come un’auto senza benzina”.
Quando René riappare poco dopo, a bordo di una nuova piroga, non ho il coraggio di chiedere da dove sia sbucata. Nell’ultimo eden terrestre le spiegazioni logiche non funzionano. Sono le piante assopite che custodiscono le risposte ai grandi perché. Gli spiriti delle acque a tramandarne i segreti. Il giudizio di un uomo vale più o meno quello di un porcospino. E’ solo questione d’orecchio. Se si riuscisse a sottrarsi all’ipnotico sciabordio dei colpi di remi, l’apparente silenzio che inghiotte le sparute canoe dei pescatori si rivelerebbe niente più che un mercato in festa. Dall’alto di un mogano il golden cat declama le sue virtù di agile predatore. Un pappagallo grigio africano se ne fa beffe ciangottando da una liana all’altra. Sotto una felce imperlata di rugiada il timido Gallago d’Allen sgrana gli occhi e si colpevolizza per essere solo un bizzarro scoiattolo dalle orecchie tonde e la coda troppo lunga.
Inutile stupirsi per le parole che i bimbi baka rivolgono ai loro invisibili compagni. Una volta messo piede in territorio pigmeo, anni d’esperienza non contano improvvisamente più. Il tempo comincia a dilatarsi sino a fare del passato e del futuro un sol boccone, mentre soltanto il nome sembra conservare ancora il potere di distinguere le cose: Bitounga, Esseng, Nkokom. Villaggi identici l’uno all’altro, dove dal folto dell’erba sbucano capanne come funghi, igloo coperti di foglie di palma e sostenuti da una gabbia di rami secchi.
“Guardale bene, perché non dureranno ancora molto”. Accanto a René si è materializzata una ragazza completamente nuda, dalle cui trecce zuppe d’acqua pendono coloratissime perline. Inspiegabilmente parla spagnolo, ma le sue gambe slanciate e gli zigomi tondi dovrebbero già di per sé tradire l’appartenenza a una famiglia lontana. “Vengo dalla Guinea Equatoriale; ma sai com’è: la foresta non ha confini”.
Ancor prima di sbalordirmi per la naturalezza con cui ostenta la sua nudità, una sottile inquietudine fa tremare i banani del villaggio. Alle popolazioni bantu, il ceppo dominante fra i neri africani, non basta schiavizzare la manodopera pigmea, insultarla alla prima occasione utile, o deridere addirittura i suoi lavoratori a contratto con lo sprezzante appellativo di monkeymen, uomini-scimmia.
Da anni si portano via anche le loro donne, alimentando un perverso sistema di sudditanza legale, dove i diritti e i doveri di famiglia assai raramente pendono a favore dei pigmei. La dea nera che sta invitando i suoi parenti a mettere in scena una mebasse, la danza tradizionale per accogliere gli stranieri, potrebbe dunque essere la figlia di una seconda o terza moglie di qualche facoltoso commerciante guineano. Ibrida bellezza di sangue bastardo, tornata a vedere come una tribù muore. Come il sapere di millenni si estingua ogni giorno nella consolazione dell’alcool e nei breviari cristiani.
Lancia un urlo e mille voci s'intrecciano. Le mani sono vinte dal ritmo. In cerchio, coi piedi nudi nella terra rossa e le vergogne frettolosamente coperte da abiti che portano solo allergie, a sorpresa i pigmei si trasfigurano in Ezengi, lo spirito della foresta. Diventano un enorme pitone che, sbandando sul proprio corpo maculato, tenta ossessivamente d’afferrare con il capo la coda. Pochi passi e sono già ragni volanti: balzano da un angolo all’altro, si sfiorano, si punzecchiano. Quasi a voler ribadire che questa è la loro vera forza, la loro lingua imperitura.
Ma nulla mi diranno delle virtù nascoste della loro pianta sacra, l’iboga, che chiama a raccolta i morti e impone alla coscienza il martello del giudizio. Può darsi abbiano persino dimenticato come preparare la fine polvere che s’ingoia sino a paralizzare il proprio corpo, raschiando la corteccia delle sue radici allucinogene. Né sanno che i loro veri congiunti abitano ancora nelle sperdute foreste delle isole Andamane, o nel fitto della jungla papuana. L’epica marcia che guidò l’uomo delle origini fuori dall’Africa, alla conquista del mondo, è solo un vago ricordo con cui blandire la notte.
Il Gabon d’oggi ha fatto tesoro del sapere pigmeo, ma fatica ancora troppo ad ammettere da dove arrivino i miracolosi ritrovati della sua medicina tradizionale o le ingegnose invenzioni della foresta. Nella riserva di Lopé, gioiello Unesco che attorno alle rive del fiume Ogoouè preserva le più grandi colonie di mandrilli e gorilla del centrafrica, i petroglifi pigmei sono tenuti ben all’ombra del monte Brazza. Poco importa se le mappe preistoriche riprodotte sui massi vicini mostrino un mondo visto dall’alto e attentamente misurato nei suoi livelli altimetrici, quasi il Paleolitico fosse epoca arrembante d’aerei o deltaplani.
Si celebra l’umanità di Albert Schweitzer nell’ospedale di Lambarené, dove decine di corpi lebbrosi e malarici trovarono conforto fra le mani del premio Nobel per la pace del 1952, senza far cenno che solo a pochi chilometri di distanza il tempio di Komi è diventato la porta d’accesso al culto del bwiti. Lì nganga Tsanga Jean, anziano guaritore che vive con le sue 5 mogli ed i suoi 22 figli, si proclama quarto re dei Simba, degli Okandet, dei Kota Kota, degli Tsogo o dei Pouè, ma considera i pigmei semplicemente una delle nove etnie a lui soggette: eppure la segreta magia di cui si fa sacerdote è il dono più prezioso che i monkeymen abbiano mai fatto all’uomo.
Quando di notte sveste il pagne dai cerchi rossi per indossare le pelli degli animali scuoiati, dovrebbe saper bene che ogni suo potere viene proprio da loro. Che nel grigiore dei suoi capelli arricciati riposa l’esperienza di secoli di foresta. Ordina di accendere fuochi e far ardere sino all’alba le torce moupeto, affinché gli spiriti malvagi siano messi in fuga dal profumo resinoso di okoumé.
Con gesto sovrano divide a sinistra del tempio le donne e gli uomini a destra, mentre gli basta un cenno del capo per far scuotere sino allo sfinimento i sonagli fatti coi gusci di cola. O piuttosto impedire ai giovani iniziati d’interrompere il suono viatico del ngombi o del mogongo, arpa ed archetto da bocca indispensabili per guidare l’anima nel regno dei morti. Il suo pugno, che dispensa la sacra polvere visionaria, può uccidere esattamente come regalare una nuova vita: quella di chi ha scelto di uscire da questa terra per fare i conti con la propria coscienza.
Un fruscio. René è di nuovo al fianco.
“Non troverai le risposte che cerchi fra i pigmei. Solo lacrime e vergogna. Ma noi parliamo così”. Mi allunga una radice d’iboga e allargando il braccio con fare cavalleresco, mi presenta la notte. Per una volta, sono però le mie parole a regalargli un sorriso. “Ci sono già passato, fratello mio”.
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L’ARTE DEL TAGLIO DELLA PREDA
Arrivare in un villaggio pigmeo durante la spartizione di un animale cacciato con la lancia è uno spettacolo tanto raro, quanto affascinante. Questo rito permette infatti di comprendere al volo quali siano gli equilibri d’importanza sociale all’interno della comunità. Innanzitutto al “proprietario” della preda ci si rivolgerà col titolo onorifico di konza, ovvero “colui che dispone dell’animale ucciso e ne gestisce la spartizione”. Di solito viene nominato tale chi ha colpito per primo la preda, anche se di fatto non l’ha poi catturata o finita. A lui spetterà la testa, benché valga la regola per cui più grande è l’animale ucciso, minori sono le parti assegnate fra i cacciatori subito dopo la cattura. Un gorilla di circa 175 chili, ad esempio, viene diviso in 32 parti, di cui solo una attribuita al konza. Se le parti a testa sono maggiori, al villaggio scatterà una nuova divisione, che deve necessariamente tener conto delle esigenze della moglie, del padre, della madre e dei nonni. Il problema è che per moglie s’intende sia la moglie effettiva del cacciatore, che quella del fratello maggiore o la sorella più giovane della propria moglie. Analogamente sarà fra i consanguinei delle altre categorie. Quando la carne viene cotta e cucinata, sono infine le donne a ricoprire il ruolo di konza. Il potere sociale, dunque, gira e varia in funzione dell’effettiva quantità di cibo messa a disposizione della comunità.
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IBOGA, LA PIANTA DEI MORTI
Ogni comunità, in Gabon, racconta una versione diversa. C’è chi sostiene che le virtù dell’iboga (dal verbo boghaga, “prendersi cura”, in uso fra gli Tsogo) siano state scoperte mangiando la carne di un porcospino, trafitto in una battuta di caccia senz’accorgersi però della presenza di scorza della pianta nel suo intestino. Chi è sicuro che sia stata la pianta stessa a rivelarsi ad una donna, custodendo fra le proprie fronde le ossa del marito scomparso. Di fatto, l’unico punto su cui tutte le tradizioni convergono riguarda il legame con le tribù pigmee, protagoniste dirette o indirette della trasmissione del sapere legato alle proprietà visionarie dell’iboga. A differenza di molte altre piante psicotrope, la Tabernanthe Iboga (questo il nome scientifico della magnoliopsida che cresce solo nelle foreste equatoriali africane) non porta ad una condizione propriamente estatica o allucinatoria, ma intensifica le facoltà percettive, consentendo di vedere, sentire e dialogare con presenze normalmente non rilevate: antenati, parenti scomparsi, in generale persone defunte. Da qui, appunto, il suo appellativo popolare di “pianta dei morti”.
In Gabon, e recentemente anche in Guinea Equatoriale e nella zona meridionale del Camerun, viene normalmente usata all’interno di un complesso rito d’iniziazione: il bwiti-ngenza, (“la conoscenza dell’origine di tutte le cose”). Anche in questo caso le cerimonie possono variare notevolmente da zona a zona, a seconda che si prenda parte ad un’iniziazione dissumba (la più antica e coreografica, ma lunga anche tre mesi), missoko (meno religiosa e più terapeutica, solitamente concentrata in tre giorni) e fang (la più recente e sincretica, nella quale cristianesimo ed animismo si fondono in una visione cosmologica molto originale). Le fasi salienti sono comunque tre: dopo aver assistito alla rappresentazione del mito dell’iboga, sorta di teatrodanza inscenata dai confratelli sotto l’effetto della pianta, il banzi (cioè l’iniziato) comincia il suo percorso di purificazione, morte e resurrezione. Deve rispettare digiuno e astinenza, in modo tale da poter giungere più facilmente allo stadio visionario; una volta sottopostosi a fumigazione e immerso completamente nudo in un fiume, ha diritto a indossare una veste di lino rossa e nera, venendo cosparso al contempo di caolino. Inizia quindi l’ingestione in ampie dosi della scorza ricavata dalla corteccia delle radici d’iboga, in un crescendo di tremori, sudorazione, paralisi locomotoria e fortissima nausea.
Quando il banzi riesce infine a vomitare, i primi suoni e le prime visioni scomposte prendono forma, mentre il maestro di cerimonia lo aiuta a sostenere il cammino. Rimarrà sospeso fra mondo ordinario e al di là per almeno una notte e un giorno, venendo infine riaccolto in seno alla comunità con una grande festa. Eppure l’iboga cela un segreto che sta conquistando sempre più adepti in Occidente: ne abbiamo parlato con due dei maggiori esperti italiani.
FARMACOLOGIA E IBOGA
Gli stati non ordinari di coscienza, comunemente abbreviati in Snoc, sono un fenomeno molto complesso e controverso attestato sin dagli albori della civiltà. Fulvio Gosso, psicologo di formazione psicoantropologica e vicedirettore della Società italiana studio stati di coscienza (Sissc), ne ha indagato forme diverse in numerose opere e pubblicazioni, fra cui il recente libro Il sogno sulla roccia.
«Le tecniche e gli induttori di tali fenomeni - spiega lo stesso Gosso - possono essere di natura chimica, relativi a un gran numero di allucinogeni o psichedelici naturali (funghi, cactus, semi o infiorescenze...), o creati in laboratorio (come l’arcinoto Lsd). Alcune forme di Snoc riguardano tutti quanti, a partire dal sogno notturno all’orgasmo sessuale, per arrivare alla contemplazione o all’innamoramento. Una ricerca americana del 1973 (purtroppo l’unica che abbiamo ancor oggi) aveva stabilito che su 488 gruppi culturali indagati a livello planetario, ben il 90% aveva un atteggiamento positivo nei confronti di questi fenomeni. Il restante 10%, coincidente di fatto con l’Occidente capitalista e il blocco sovietico-socialista, si mostrava al contrario ostile, alimentando dunque un conflitto ideologico che ha interessanti risvolti politici e sociologici. Purtroppo la propensione ad etichettare superficialmente questi fenomeni, considerati “trasgressivi” o “pericolosi”, ancor oggi non aiuta a sviluppare un confronto sereno sul tema. Un vero svantaggio, perché molte tecniche centrate sulla modificazione dello stato di coscienza possono essere utilizzate a livello psicoterapeutico, come avviene in Svizzera attraverso l’uso dell’acido Lsd, o dell’Ecstasy, sulle nevrosi e i disturbi post-traumatici da stress. Fatta eccezione per l’ipnosi e poche altre tecniche psicofisiche, non sono però al corrente di progetti analoghi in Italia».
La scarsità d’informazione relativa a certi tipi di sostanze psicoattive, nella fattispecie quelle africane, ha invece spinto l’etnobotanico Giorgio Samorini a compiere viaggi d’approfondimento e missioni di ricerca direttamente nel Continente Nero. Entrato in contatto con una comunità della setta buitista Ndea Naridzanga, nel 1993 ha poi deciso di sottoporsi in Gabon al duro rito d’iniziazione locale. «L’iboga è un allucinogeno molto potente - sottolinea - dal momento che il suo effetto, in dosaggio normale (5-10 grammi secchi), dura dalle 12 alle 20 ore. I buitisti tendono però a somministrarne una quantità enorme per portare allo stadio visionario, tant’è che io stesso ne ho assunto 400 grammi. Conseguentemente si entra in uno stato di “coma” molto rischioso, ma ben controllato dalle sofisticate tecniche di somministrazione dei buitisti. Al di là dell’aspetto spirituale, l’ibogaina (l’alcaloide contenuto nell’iboga) ha un ruolo determinante nelle terapie di disintossicazione da oppiacei (così come da cocaina e crack), rientrando nel più generale campo delle cosiddette “terapie psichedeliche” delle interruzioni delle tossicodipendenze. Sembra infatti indurre una specie di “resettazione” del sistema cerebrale dei neurotrasmettitori, anche se il funzionamento varia da individuo a individuo. Non a caso in Olanda, Slovenia e Francia è stata impiegata per trattamenti sperimentali con effetti talvolta sorprendentemente efficaci. In Italia non esistono però strutture mediche a cui rivolgersi, per cui la poca documentazione disponibile si trova sul mio sito samorini.it o nelle mie pubblicazioni sulla rivista Altrove».
Da non perdere
LE CASCATE
A un giorno di piroga dalla cittadina orientale di Makokou, le cascate di Kongou sono considerate le più spettacolari di tutta l’Africa equatoriale. Si trovano all’interno dell’Ivindo National Park e danno modo di accamparsi nelle proprie vicinanze, grazie al supporto della fondazione a conduzione italiana Figet (Fondation Internationale Gabon Eco-Tourisme, trusttheforest.org).
IL PARCO
Definito dai più famosi conservazionisti “l’ultimo eden dell’Africa”, il Laongo National Park (operation-laongo.com) vale anche solo per assistere allo spettacolo degli ippopotami che fanno surf sulla pancia. Qui la fitta foresta equatoriale incontra le acque del mare, dove abbondano delfini acrobatici, elefanti da spiaggia e imponenti balene.
LA CITTÀ
Oasi di pace accoccolata sull’estuario del fiume Ogooué, Lambaréné è ancora pervasa del caritatevole spirito del dottor Albert Schweitzer. Nel suo ospedale-museo rivive la storia coloniale dell’intero continente, ma è il paesaggio dolce e lussureggiante a cingere il cuore con carezze lievi come foglie di palma.
L’ASSOCIAZIONE
Accampatosi trent’anni fa sulla spiaggia dorata de La Sablière a nord di Libreville, l’antropologo francese Tatayo ha trasformato il suo rifugio in un suggestivo spazio cultuale votato al bwiti. Fra fuochi e feticci, presso la sede di Ebando (www.ebando.org) si celebrano iniziazioni, si effettuano trattamenti teraputici a base d’iboga e vengono messe in scena danze folkloristiche riproposte a metà agosto nell’imperdibile festival delle culture della capitale. Di fronte si trova l’atelier dell’artista bwiti Olga “Makapenga”. Ebando collabora anche alle iniziative dell'associazione BtoBGabon (www.btobgabon.com), a sua volta impegnata nel campo della danza e del teatro.
OSPITALITÀ e SAPORI
Le Dorian Hotel - BP4445 Libreville - Tel. 00241 0733 45 45 - hoteldorian.ga
Molto attento al design degli interni, ma con un delizioso gusto per l’arte tradizionale gabonese, offre un comodo servizio wi-fi e si trova nell’elegante quartiere di Montaigne Sante, vicinissimo al palazzo presidenziale.
Mission Soeurs de l’Immaculée Conception - seconda isola sull’Ogooué a Lambaréné - Tel. 00241 58 10 73 - soeurs-mic.qc.ca
Storico complesso cattolico risalente al 1880, offre camere immacolate e a ottimi prezzi, oltre all’amorosa cucina delle Sorelle Blu.
Laongo Lodge - laguna Iguela del parco di Laongo - Tel. 0031 26 370 55 67 africas-eden.com
Piccolo lodge nel cuore dell’ultimo parco nazionale istituito dal governo, permette di raggiungere facilmente tutte le attrattive principali soggiornando in un ambiente di raffinato gusto coloniale.
Ristorante che fonde la tipica cucina centrafricana con l’avanguardia francese, abbinando carne di serpente con colorate combinazioni di verdure, o più classici pesci affumicati.
La Dolce Vita - BP4320, Libreville - Tel. 00241 72 42 38
Ubicato nel cuore del porto, con scenografica veduta sul mare, è il ritrovo più cool della capitale: d’obbligo i crostacei.
Le p’tit detour - Quartiere di Saint Isaac, Lambaréné -
Dietro la seconda rotonda del corso principale, in direzione Fougamou, il dilemma è: gamberoni o pitoni? Antilope o coccodrillo?
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