Sana’a - Masticano, masticano e ancora masticano. Sempre con la stessa imperturbabile flemma orientale, che non si scompone di fronte alle schiene piegate delle donne di ritorno dai campi, così come all’incalzare del tempo. Nel quotidiano rito di degustazione del qat, magiche foglioline verdi capaci d’infondere un insospettabile stato d’eccitazione, non si condensa solo l’enorme bolo che arrotonda folkloristicamente le guance degli yemeniti, ma l’essenza stessa di un Paese in bilico fra storia e leggenda, fra pugnali ed henné.
Qui le clessidre scandiscono minuti dilatati come evi, a tal punto che uno sbadiglio può evocare il ricordo di un viaggio in carovana lungo la Via dell’Incenso, al pari della messa in pensione del Marxismo: benché siano trascorsi tremila anni, la bellezza della regina di Saba fa sospirare quanto il ricordo delle audaci compagne di Aden, che dal 1967 al 1990 lustrarono gli occhi a chi ancora stenta ad accettare l’imposizione della severa sharia islamica. Ne sa qualcosa l’inviso presidente Ali Abdullah Saleh, allontanatosi in Arabia Saudita per curare le proprie ferite, ma già pronto per gli annali della storia.
Se calma si dà, è sempre e solo apparente: quando l’effetto della chata edulis entra in circolo, nello Yemen scoppia una festa al pari di una rivoluzione. Le strette e silenziose vie di Sana’a, gioiello Unesco in cui svettano orgogliosi palazzi dagli inserti d’alabastro, vengono improvvisamente invase da una folla brulicante di faccendieri in kalashnikov, mentre lo sguardo del venditore di jambjie – sino a pochi minuti prima vivace ed astuto - comincia ad attardarsi sui suoi pugnali ricurvi. Le armi non sono semplici orpelli da mettere in mostra nel più fascinoso suk arabico, ma l’immancabile corredo di un popolo troppo fiero per fidarsi del vicino.
Persino i cammelli e gli asini sembrano fiutare gli inquieti sbuffi del cambiamento. Che stiano correndo a rotta di collo sotto i grattacieli a secco di At Tawila, o si dinoccolino per non precipitare nell’abisso dell’inespugnabile Kowakaban, il loro passo non è mai cadenzato e regolare. Nicchia nella frescura delle cisterne di Hababa, per poi scattare senza ragione di fronte agli spruzzi delle fontane che introducono al Wadi Dhar, il sontuoso “palazzo nella roccia” ove l’imam soleva ritirarsi in estate sin dal lontano 1786.
Avvertono a pelle l’incostanza di chi li cavalca. Fra dune immacolate, palme dum e tetti di capanne in paglia, il desiderio di un’Africa mai tanto vicina e sensuale può infatti afferrare i loro padroni con la stessa imprevedibilità di un profumo adolescenziale, liberato fra le remote saline di Tihamah. Laggiù, ad un soffio dal continente proibito, vivono donne dalla pelle scura e dai seni sodi. Colonia dimenticata di una migrazione abortita, custodiscono quella peccaminosa libertà che solo uno sguardo rubato al velo può davvero riscattare.
Nel cuore degli yemeniti s’azzuffano la semplicità beduina del deserto con la fantasia salmastra del mare, il saggio digradare dei terrazzamenti con le acrobazie araldiche dei falchi in picchiata. Le loro passioni sono imbevute del suadente aroma di caffè che si respira nel porto di Al-Mokkha, i cui frenetici traffici già fecero ribollire le tazze dei salotti illuministi; nei loro occhi è lo stupore per gli squali abnormi di Hodeida, tramortiti sui legni variopinti delle affusolatissime dhow.
Sanno fare orecchie da mercante, perché conoscono il silenzio dell’isola corallina di Kamaran, così come le mute preghiere delle vie di Zabid, dietro le cui porte intarsiate gli studenti del Corano si perdono fra narghilé lucenti e volumi dagli antichi segreti algebrici. Loro furono i volti trasognati, i pesanti sospiri, i molli gesti catturati dalle cineprese di Pier Paolo Pasolini, che qui girò le sue “Mille e una notte”, mentre osservava le dita della gioventù affondare bramose negli arabeschi dei tappeti.
Masticavano qat allora. Masticano qat oggi, perché all’ombra dei minareti dagli intonaci colorati di Taiz o Jibla, dove influssi turco-siriani, egizi, persiani e persino moro-andalusi hanno dato vita ad un’inusitata koinè islamica, attendono una nuova sovrana che si sostituisca al ricordo della regina Arwa. Per quanto a Marib resti in piedi una gigantesca e spettacolare diga dell’ottavo secolo, nessuna moschea del Venerdì è infatti riuscita a riportarne in vita il divino corpo.
I troni merlettati restano vuoti. Alle sue eredi tocca oggi rivoltare
il grano affidandolo al vento, tessere pazientemente nelle fresche stanze di case impastate col fango; eppure, celate nei loro neri veli, prima o poi anche loro lasceranno affiorare dita sottili dipinte di henné. Anche loro, al momento opportuno, sapranno liberare occhi ambrati dall’inequivocabile preghiera: “avanti, scoprimi!”.
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