Basta sbirciare pochi secondi oltre il cancello e sono già tutti lì. Il maestro col suo inglese zoppo e la tunica immacolata, la preside incombente nelle massicce forme d’antica candace, un nugolo di bimbi che, ridacchiando complice, non sta più nella pelle. A volte scura come la pece, altre delicatamente ambrata; perché a Mulwad il Maghreb nomade e l’Africa nera siedono ogni giorno allo stesso banco. Imparano pazientemente a convivere e a riconoscere confini che si spingono al di là delle scarificazioni tribali.
Si tratti dei territori dei Kababish o dei Fur, dei Bisharin o degli Hadendoa. O almeno così si augura la gente di questo piccolo villaggio sepolto fra le bianchissime sabbie del deserto Bayuda e il limo del Nilo, più che mai decisa a regalare un futuro di pace ai propri figli.
«Vivere insieme e in armonia non è solo una questione politica o di confessione religiosa – riconoscono gli insegnanti – ma una necessità pratica. Lontano dai palazzi del potere, il Sudan resta un’immensa distesa di villaggi agricoli e comunità dedite alla pastorizia, costrette a confrontarsi quotidianamente con la minaccia della desertificazione e la scarsità d’acqua. Per noi l’arrivo dell’altro, del forestiero, è sempre stato una benedizione, una finestra sul mondo che vogliamo tener spalancata per alimentare la nostra speranza».
Dallo scorso ottobre la linea dell’orizzonte si è improvvisamente sovrapposta a quella del turismo, cui la regione del Nilo ha voluto dedicare un’apposita giornata, augurandosi che l’iniziativa pilota risvegli un’ondata d’orgoglio nazionale. Ma non è che l’ultima spiaggia alla quale il governo si sta aggrappando per scongiurare l’inevitabile: la scissione della parte meridionale del Paese, chiamata a pronunciarsi sulla propria indipendenza nel referendum in programma per l’11 gennaio.
Quasi una bestemmia alle orecchie del presidente Omar Hasan Ahmad al-Bashir; eppure aggirandosi fra i villaggi e i siti archeologici della Nubia è facile rendersi conto di come la storia del Sudan altro non sia che un continuo avvicendamento dei suoi stessi popoli. Oltre 500 diverse etnie, costrette negli smisurati confini che gli inglesi sancirono nel 1956, allorché l’Union Jack fu infine ammainata.
Mulwad, proprio come Taminal, Umegal o qualsiasi altro piccolo agglomerato che s’incontra lungo il corso del Nilo, somiglia solo apparentemente ai vicini. Una via polverosa e un po’ più ampia al centro, qualche acacia spinosa che si contorce sotto la rabbia del Sole, labirinti di mura talmente bianche da accecare.
Impossibile riconoscere di primo acchito uno schema urbano, un’idea d’ordine, ma l’errore sta proprio qui: la Nubia cerca disperatamente l’ombra, celando la sua grazia dietro i veli delle donne che fluttuano variopinte oltre le cinte divisorie, o siedono in gruppo fra i corridoi delle proprie abitazioni, aspettando che uno sbuffo d’aria bollente secchi l’henné appena disegnato.
I loro eleganti thawb sfoderano gialli zafferano, azzurri cobalto o rossi purpurei, donano colore ai loro corpi e ispirazione alle loro mani, quando intinte nella tempera scivolano sinuosamente sulle pareti domestiche: arte sopraffina di un estro autodidatta, attraverso cui riescono a far sbocciare su calce quei fiori meravigliosi di cui il deserto pare tanto avaro, ma i loro abiti sono invece prodighi. La fantasia al potere. L’improvvisazione che soppianta il raziocinio calcolatore. E’ l’orgoglio della diversità reclamato con un segno di pace.
Altre volte sono però i feticci sui pilastri d’ingresso a segnalare che l’Africa animista, e un po’ selvaggia, è ancora lì, benché il lamento del muezzin vigili immancabilmente sovrano. In cima ad una colonna le fauci di un coccodrillo attendono prede disattente. Le corna di un’antilope sono pronte ad inforcare. Spiriti malvagi non mancano di certo in questa terra, dove i resti di antiche necropoli affiorano all’improvviso dietro casa, o i cunicoli delle piramidi disseminate ovunque affondano nelle viscere degli inferi.
Sarà per quello che in tavola non manca mai una ciotola di ful - il popolare stufato di fave con olio, cumino e peperoncino - oppure una tazza fumante di karkadé: l’ospite, di qualunque provenienza esso sia, troverà sempre accoglienza, a patto che sappia avvicinarsi abbandonando l’aggressività del gesto, così come svestendo l’arroganza del benessere. E’ impossibile barattare quella dignità che il popolo sudanese non ha ancora dimenticato e sa far valere ancor oggi con la giusta dose di meraviglia e riprovazione.
Fuori Khartoum, la capitale che sorge nel punto di confluenza fra Nilo Bianco e Nilo Azzurro, persino le paure del governatore britannico Gordon Pascià sono ormai solo allucinazioni dovute alle temperature inclementi. Anche nel caso in cui dovessero riaffiorare in televisione fra le rughe di Charlton Heston, che allo sfortunato eroe inglese dedicò una delle sue interpretazioni più memorabili nel film Khartoum.
Nessun Mahdi pronto a fare a pezzi le truppe di Sua Maestà, come avvenne nella drammatica mattina del 26 gennaio 1885, alba di quel Sudan ribelle che seppe infliggere la prima sconfitta epocale a un esercito europeo. Nessun leone dall’appetito vorace, tanto temuto dal nostro Giuseppe Ferlini, il medico bolognese a caccia di tesori faraonici che gli procurarono più anatemi che ricchezze, avendo distrutto intere piramidi a colpi di piccone.
Al massimo, solo nugoli di lepidotteri che tappezzano le pareti incautamente illuminate nelle notti tendate, qualche camel spider ghiotto di falene e aurei scorpioni assetati di rugiada: piccoli contrattempi del periodo di piena del Nilo, quando l’aria s’incendia e il termometro sembra dover schizzare oltre i 60 gradi.
Nonostante le inquietudini del governo stiano spingendo a costruire strade e ponti per tutta la Nubia, la traversata a dorso di cammello, al pari della spedizione fuoripista in 4x4, resta a tutt’oggi il modo più comune per raggiungere i tesori dimenticati dei Faraoni Neri. Anche gli accampamenti sotto le stelle offrono un comfort forse lontano dalle aspirazioni di Khartoum, ma nello spirito sono rimasti identici a quelli dei tanti esploratori qui giunti sulle orme del misterioso regno di Kush.
Per fortuna le sole armi che il Sudan d’oggi sa opporre sono le povere vesti di cotone e le lance rinsecchite che rivendicano l’orgoglio della Khalifa House di Khartoum, l’ex abitazione del califfo succeduto all’eroe dell’indipendenza dagli inglesi.
I cannoni arrugginiti che occhieggiano i pellegrini in visita alla tomba del Mahdi, lucente cupola d’argento nel cuore storico della capitale, danno l’impressione di poter esplodere solo un ultimo colpo. Le traballanti bancarelle del souk di Omdurman, cittadina sulla riva occidentale del Nilo di fronte alla capitale, espongono solo qualche pugnale sikkin, la cui lunga lama - come è d’uso fra i nomadi Bisharin - si porta comodamente allineata all’avambraccio. Accanto ad essi giacciono tutt’al più potenti amuleti degli stregoni della pioggia kujur o incensi ipnotici a base di gomma arabica.
Sono piuttosto i sorrisi d’avorio a risplendere nei volti scuri della Nubia odierna. Le scarne mani che si levano al cielo appaiono semplici gesti di saluto, additano l’inusuale forestiero, invitano ad abbandonarsi ai flutti di una feluca diretta alle cateratte del Nilo. Basta astio contro i bianchi colonizzatori. Scomparsa la paura per le incursioni degli Egizi, degli Assiri o degli Ottomani.
Eppure il pianto del Darfur continua ad assordare le orecchie di quanti non sanno più ascoltare. Le divise militari presenti agli innumerevoli posti di blocco spaventano più dell’inarrestabile avanzata della Cina, che a suon di strade asfaltate, stadi in regalo e pali della luce conficcati nel nulla, ha già messo le mani sui ricchi giacimenti petroliferi appena scoperti nel Paese. Senza contare le fresche miniere d’oro venute alla luce lungo la ferrovia diretta in Egitto o le riserve di ferro a est di Meroe, antipasti che stuzzicano ben altri giganti del mercato globale.
«La nostra vera ricchezza é riposta nella nostra storia – sentenzia un anziano kafir, pronto a sorprendere gli intrusi che pensano di essere arrivati in un sito archeologico abbandonato – e da qui occorre ridisegnare il ruolo del Sudan in Africa e nel mondo. Sentirsi eredi ed artefici delle stesse meraviglie che lasciano a bocca aperta sia i cittadini del nord, sia quelli del sud, è forse il modo migliore per cancellare l’astio del passato. Per calcare una via di pace che sia anche una via di progresso per le comunità più marginali del Paese».
Sembra di udire ancora le parole del glorioso faraone Taharqa, che ad El-Kurru inaugurò una necropoli reale i cui mattoni dovevano suggellare il potere dell’avvenire. O i proclami dei sovrani di Meroe, eredi di quegli orgogliosi guerrieri del deserto che, attorno al 750 a.C., da qui risalirono il Nilo sino al suo delta, per rivendicare il dominio su tutti i territori un tempo appartenuti all’impero egizio.
Faraoni bianchi contro faraoni neri. Eterna lotta per la luce della civiltà contro le tenebre dell’isolamento: è tutto scritto nella parabola architettonica nubiana, che riassume secoli di vizi e virtù umani. I rozzi basamenti di Nuri che, piano piano, trasformarono le tombe ipogee nelle verticalizzazioni del potere a Meroe, per poi rarefarsi di nuovo, sbriciolarsi nell’incapacità di emulare un passato troppo grande.
Nel sostenere l’audacia di quella XXV dinastia che stupì l’antichità con enormi recinti per addomesticare gli elefanti, o con corredi d’oro talmente massicci da far dimenticare persino il colore nero della loro pelle. Gli Egizi li chiamavano Nubiani, appunto: “uomini d’oro” che si credevano dèi in terra, ma si scoprirono dannatamente mortali nel momento in cui la storia li costrinse di nuovo ai margini della civiltà, lasciando che l’Africa nera se li inghiottisse per secoli.
A Musawwarat, l’esperta mano che aveva saputo ritrarre le piume di Horus e scolpire velli d’ariete si fa incerta, approssimativa, quasi banale. I corridoi di passaggio s’incurvano pericolosamente. Neppure il massiccio sacro del Jebel Barkal sembra scampato all’impietosa morsa del tempo: il fiero profilo del cobra reale, sbozzato nel pinnacolo a strapiombo sull’enorme blocco di arenaria rossa, si consuma di giorno in giorno sotto l’usura dei venti. Quello che un tempo fu il solenne santuario del dio Amon, si offre ora come un cumulo di rovine, insidiato soltanto dal volo degli avvoltoi. Risalendo la sua vetta non si scorgono più santuari fastosi e truppe temibili, ma l’immutabile serpeggiare del Nilo fra umili palmeti e l’inferno di rocce basaltiche.
La capitale del Regno Nero ha perso terreno. Napata è inciampata a Meroe, un po’ più a sud, sempre più vicina all’angoscioso limes che nelle antiche mappe paventava l’incognita dell’oltre. Poco importa se qui sia concentrato il più grande assembramento di piramidi conosciuto al mondo. Quaranta, forse più. Generazione dopo generazione, anche l'occhio ha finito per smarrire le geometrie acute, scambiando un ritratto sacro sulle colonne d’ingresso al Jebel Barkal per un’oscura figura felina. Era la dea Hator.
Sussulti creativi ci sarebbero stati ancora nel V secolo d.C., quando la cultura copta riuscì a dar vita ad alcune imponenti chiese nei pressi di Old Dongola. Spariranno anch’esse, all’ombra delle qubba islamiche. Per il Sudan sarà l’inizio del lungo sonno, benché capitelli solcati da croci arcuate siano rimasti sepolti solo a metà; per quanto le punte delle piramidi abbiano avuto un ultimo scatto d’orgoglio, spingendo il loro vertice oltre la morsa delle sabbie.
E a terra, niente più che cocci d’argilla, pronti però a riaffiorare ostinatamente qua e là. Quasi attendessero d’essere ricomposti con secolare pazienza, per rivelare l’autentico volto di un Paese relegato alla confluenza di due mondi. Oggi ancor più di ieri.
LE RUOTE DEL TEMPO
La parola derviscio mette ancora i brividi in Sudan. Benché letteralmente non significhi altro che “povero” o “mendicante”, e nell’Islam designi in generale gli appartenenti alle correnti mistiche, a Khartoum è ancora vivissimo il ricordo della loro strage per mano del comandante inglese Herbert Horatio Kitchener e di una recluta non ancora famosa, un certo Winston Churchill. Ogni venerdì sera, quando il sole inizia a tramontare, i loro successori si ritrovano nei pressi della qubba (tomba) di un’importante predicatore musulmano morto nel 1936, Sheikh Hammad el Nil, e lo spettacolo ha così inizio. Arrivano a decine, forse centinaia, inneggiando ad Allah, saltando a destra e a manca, ruotando su se stessi, scandendo il ritmo con le mani, i piedi, i piatti o i bastoni. Le ampie vesti bianche si trasformano in ruote del tempo che, nell’estasi generale, invitano a ricongiungersi con i fedeli del passato e a percepire la presenza divina attraverso gli spasmi del corpo. I tamburi incalzano. Lunghe trombe strillano. Pur non essendo una rappresentazione pensata per il pubblico, ognuno può accedervi e partecipare all’estasi collettiva. Almeno sino al calar del sole, quando i cerchi dei danzatori si allineano verso la Mecca ed iniziano a pregare seguendo metodi più tradizionali. Ma è nella frenesia delle rotazioni che si sprigiona tutto il fascino delle eleganti vesti decorate, dei bastoni ritmici rivolti al cielo, delle collane tintinnanti e dei capelli al vento. Un’istantanea che inevitabilmente ricorda l’assalto in massa contro le truppe britanniche del 2 settembre 1898, in grado di annientare in pochi secondi quasi 10mila guerrieri rimasti a difendere quel che rimaneva della Khartoum libera del grande Mahdi.
MISTERI ARCHEOLOGICI
Il tempio del Leone di Naga è un vero rompicapo per gli archeologi. Già il nome stesso della località, per chiunque abbia dimestichezza con la cultura orientale, richiama il sacro serpente della mitologia indiana, ma le affinità col grande Paese asiatico non si limitano a questo. I ritratti del dio leone Apedemak presentano infatti quattro braccia e tre diverse prospettive, mettendo in evidenza una complessità stilistica ben lungi dai canoni classici egizi o africani. Lo stesso dio, oltretutto, riappare su un pilone esterno sotto forma di serpente con la testa di leone, prendendo le distanze da qualsiasi altra incisione contemporanea. Ma non è tutto: in sua compagnia appaiono pure i greci Zeus e Serapis, entrambi barbuti, mentre una silouette con pettinatura a raggi evoca inequivocabilmente Helios. Tre differenti culture dell’antichità sembrano dunque qui raccolte e convivere armoniosamente. Nonostante gli accaniti studi di un’equipe tedesca, testimonianze che attestino un loro contatto diretto in loco continuano a mancare, così come nessun’altra traccia simile è stata ancora rivenuta in altre parti del Sudan. Va inoltre ricordato che, pur in presenza di Iside ed Osiride, il dio leone non è mai appartenuto al pantheon egizio, tanto da mostrare nei bassorilievi di Naga una ferocia inusuale per le rappresentazioni sacre (più volte si nota un leone divorare la testa di alcuni schiavi), così come spiazzanti sono le dimensioni della regina Amanitore, grande quasi quanto il consorte Natakamani. Che cosa accadde a Naga, dunque? Forse questa località nasconde una storia di travasi e contaminazioni che potrebbe aver poi influito sulle correnti di pensiero più sotterranee? Esisteva davvero una società dominata dalle donne candace? Ogni risposta è ancora sospesa.
ABITAZIONI DA SALVARE
Non se ne conta una uguale all’altra. Le case nubiane sorprendono di continuo per la varietà e la bellezza delle loro decorazioni, sia quando appaiano sui portali policromi (in cima ai quali svettano spesso anche feticci di protezione), che sulle pareti interne o esterne delle abitazioni. Dal giorno in cui la vernice ha fatto capolino nei remoti villaggi a nord di Khartoum, l’istinto artistico dei suoi abitanti si è totalmente abbandonato alla fantasia. Disegni geometrici o floreali, figure astratte o scene di caccia, aprono mondi paralleli sulla bianca calce delle mura, allorché le dita intinte di giovani artiste prendano a scorrere sulla loro superficie senza alcun’idea prestabilita. Affidandosi semplicemente al gusto del momento o all’ampiezza dello spazio disponibile. Un’arte di pura estrazione popolare che rischia però di estinguersi da una generazione all’altra, a causa della povertà che spesso attanaglia le famiglie più isolate. Ecco perché la società Italian Tourism, in accordo con i consigli locali degli anziani e il tour operator I Viaggi di Maurizio Levi, ha deciso di supportare queste iniziative artistiche fornendo colori alla famiglie meglio predisposte. L’accordo prevede inoltre che i viaggiatori italiani possano poi albergare o concedersi tea break nelle case patrocinate, entrando in contatto diretto con gli usi e i costumi dei locali. O chissà, contribuendo col proprio gusto artistico ad impreziosire un remoto angolo della lontana Nubia.
RISTORANTI
AL ASSAH VILLAGE
(Tel. 00249/155.212.121 – 183.481.919, fax 00249/183.481.912. Khartoum1, dietro l’ambasciata canadese)
Vicino all’aeroporto di Khartoum, questo complesso 4 stelle funge sia da grazioso hotel con ambientazione mediorientale (20 camere) che da ristorante, distinguendosi soprattutto per le sue specialità libanesi. Fra i suoi piatti forti spiccano le carni alla griglia speziate, i mezzeh (antipasti a base di farina di legumi) e i budini di riso.
AL WAHA
(Tel. 0183/499.288, Khartoum 2)
Si trova nel quartiere di Khartoum2 ed è il posto giusto per assaporare la famosa “pecora alla sudanese”, meglio conosciuta come Kharouf. Un animale a metà fra una capra e una pecora appunto, dalla coda lunga e grassoccia, sebbene la sua carne risulti poi molto magra ed estremamente digeribile. Viene spesso servita con una salsa molto piccante. Prezzi fra gli 8 ed i 12 euro a portata.
CHAI HOUSE
Letteralemente “Case del tè”, sono di fatto il corrispettivo dei nostri autogrill. Comode stazioni intervallate sulle strade che attraversano il deserto, ove si può tranquillamente consumare il proprio pasto preconfezionato o assaggiare qualche specialità del posto. In genere una zuppa di lenticchie, di fave o di fagioli, accompagnata da blocchetti di carne di pollo od agnello, cipolle fini, cumino e succo di limone.
ALBERGHI
GRAND HOLIDAY VILLA
(P.O.Box 316, Nile Avenue – Khartoum; tel. 00249/183.774.039, fax 00249/183. 773.961)
Noto in precedenza a Khartoum col nome di Grand Hotel, venne costruito sul finire dell’Ottocento ed ospitò niente meno che la regina Vittoria, ma anche il famoso esploratore britannico Thomas Cook ed il primo ministro Winston Churchill. Suggestiva la sua posizione sulle rive del Nilo Azzurro. Consta di 160 camere arredate in stile coloniale, ma anche di alcuni appartamenti privati.
NUBIAN REST HOUSE
(info presso The Italian Tourism Co. Ltd., Street 27 - Al Amarat Karthoum.
Tel. 00249/183.487.961, fax 00249/183.487.962. Email: info@italtoursudan.com)
Tipico esempio di casa in stile nubiano, la rest-house di Karima stupisce sin dal suo portone d’ingresso, finemente intagliato e dai vivaci colori. Le camere, ospitate in un’accogliente struttura con volte a botti e arredo in legno, sono distribuite attorno ad un fresco giardino da cui si può ammirare la vicina montagna sacra del Jebel Barkal. Aperta da ottobre a fine aprile.
SAFARI CAMP MEROE
(info presso The Italian Tourism Co. Ltd., Street 27 - Al Amarat Karthoum.
Tel. 00249/183.487.961, fax 00249/183.487.962. Email: info@italtoursudan.com)
Ubicato nei presi di Bagarwya, circa 230 chilometri a nord di Khartoum, il campo tendato è proprietà de I Viaggi di Maurizio Levi e domina la straordinaria necropoli di Meroe. A disposizione degli ospiti ben 10 tende coloniali da 4 metri per 4, montate su base di cemento e arredate con delizosi mobili in legno. Imperdibile l’alba sulle sedie di canapa davanti alla veranda, o la cena sul piano rialzato e ventilato del vicino ristorante. Aperto da ottobre sino alla fine di aprile.
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