"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

mercoledì 10 ottobre 2007

L'ULTIMO DOMATORE DI ELEFANTI




Tabarka - Capita talvolta ai viaggiatori di porsi quesiti un po’ bizzarri. Del tipo: “E se fossi stato una palla da catapulta in una precedente vita?”. Piombare in Tunisia dopo due ore scarse di volo risveglia infatti la sensazione di essere niente più che un grave frettolosamente sbozzato, posto su un marchingegno di stupefacente precisione balistica e lanciato verso una terra dov’è meglio non far parola dell’elmo di Scipio.



A Tunisi, quanto meno, ci sarebbe il tempo di capire perché i francesi dovettero darsela a gambe nel ’56, rivolgendo uno sprezzante adieu ai lidi d’Africa e alle glorie coloniali. Ma a Tabarka, una manciata appena di chilometri dal confine algerino, va già bene se al nome di Annibale si associa la figura di un domatore di elefanti. Degli antichi punici non c’è traccia lungo le spiagge di sabbia bianca, né tanto meno sulla strada infuocata che attraversa gli eucalipti e i rosmarini della macchia.



Si scorgono solo strane creature dalla pelle rosolata, con uno sguardo d’indolente beatitudine, che rotolano su se stesse cosparse d’olio: ci fosse un passante bipede, gli si potrebbe chiedere se quella non sia forse la rappresentazione vivente dell’inferno musulmano, popolato da enormi porcelli “à la mediteraneé”. Prima di ottenere una risposta, alle porte della cittadina che genovesi, veneziani e spagnoli si contesero ripetutamente per controllare il traffico di coralli rossi, occorre però armarsi di pazienza e lasciarsi alle spalle una sequenza di club e villaggi in diretta concorrenza con le più grandi multinazionali di carne in scatola.



Poi, d’improvviso, la magia maghrebina si sprigiona con la stessa delicatezza con cui ti sembra d’aver sfiorato una lucerna intarsiata e dal becco ricurvo, che qualche venditore ambulante ha incautamente abbandonato sul ciglio del bazar. Sullo sfondo di abitazioni immacolate, le cui persiane azzurre celano sguardi più seducenti degli arabeschi sopra gli stipiti, uomini dai fez sgargianti attendono l’occasione giusta per offrirti una boccata di narghilé alla mela.





Intramontabile arte del contrattare senza fretta, mentre donne velate impacchettano datteri, setacciano spezie inebrianti e lasciano tintinnare quelle dorate paillettes che, da sempre, accompagnano le danze proibite nel ventre delle kasbah. Non importa scegliere un rosario o pugnale incastonato di rubini; fa lo stesso se un sandalo di cuoio viene preferito ad una tunica castigata: più tempo si riserva ai propri desideri, meno ci si accorge della litania delle onde, che giorno dopo giorno assottigliano gli scogli orgogliosi in evanescenti anguille di roccia.



Né si dovrà incrociare lo sguardo di quel vecchio che, le mani giunte su una stampella di legno, fissa vuoto le colonne senza capitelli della vetusta Bulla Regia, così come le astruse geometrie sopra le lapidi di Chemtou la Numida. Non appena i cieli si saranno tinti di porpora fenicia, mandolini e trombette trascineranno la notte nel vortice alato delle feste senza fine. E nessuno potrà udire di nuovo l’eco agghiacciante delle parole di Catone: “Ceterum censeo Carthaginem delendam esse”.

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