1977: il diritto alla parola; 2007: il dovere di dissentire
Oggi compio 30 anni, ma confesso che la parola auguri m'indispone almeno quanto un “ci sentiamo”, buttato lì per levarsi frettolosamente d'imbarazzo, non appena si scorga l'attimo giusto per lasciarsi alle spalle una persona inopportuna.
Sono un figlio del '77, nato l'11 aprile di quell'anno su cui troppo spesso si preferisce glissare, omettere, storcere il naso, e non è dunque un caso che mi porti appresso un certo gusto per la provocazione gratuita, così come la voglia d'apparire scostante pur seducendo. Per qualche strana alchimia, devo aver ereditato un po' di sangue ironico degli “indiani metropolitani”, quei simpatici rompiballe barocchi che alle riunioni studentesche dei rossi, volto dipinto e tazza di carcadé in mano, debuttavano così: “Mi chiamo Gandalf il viola. Parlerò a titolo strettamente personale. Perciò parlerò a nome degli Elfi del bosco di Fangorn, dei Nuclei Colorati Risate Rosse, dell'Mpfa (Movimento politico fantomatico assente), delle Cellule Dadaedoniste, di Godere Operaio e Godimento Studentesco, dell'Internazionale Schizofrenica, degli Nsc (Nuclei sconvolti clandestini), della tribù di Cicorio, dei Cimbles e di tutti gli indiani metropolitani”.
La mia generazione fatica a essere inquadrata, mette in ansia e talvolta a disagio, forse perché rimanda al caos, all'anarchia, all'autonomia all'apice del suo potere creativo/distruttivo, o forse perché ha davvero in sé qualcosa d'intrinsecamente alieno, un germe di minaccia latente e letale: lo si capisce sin dal colore delle pellicole che ci ritraggono ancora nel pancione, o appena deposti nella culla.
Alcune sono diventate rossicce, probabilmente per l'accesso di rabbia che l'Eurocomunismo di Enrico Berlinguer scatenò allora; altre appaiono più verdastre, come se il nostro travaglio fosse frutto d'ambigue contaminazioni marziane. D'altra parte “Guerre Stellari” furoreggiava nei cinema e, a quel tempo, tutti sedevano davanti allo schermo, anziché dentro: sia chi aveva il biglietto, sia chi non. Nei cinema si andava per fare l'amore, non per invidiare le tette di Bo Derek, e se in strada s'intonava “su, su, su, i prezzi vanno su/la prima visione non la paghiamo più”, voilà: ci si faceva consegnare in massa il blocchetto dei biglietti da 2.500 lire, li si rivendeva a 500 e “i padroni della cultura” erano belli che serviti. Eufemisticamente si direbbe un furto, oggi, una violazione. Ieri era pura “autoriduzione”, diritto al consumo nell'era del (falso) sacrificio.
Cortocircuiti. Difetti di produzione. Esperimenti mal riusciti sulla qualità delle pellicole. Checché si dica, nel 1977 qualcosa è andato davvero storto. Si pensava di lasciarsi alle spalle il passato, di far piazza pulita di un mondo imbolsito, ma non ci si è spinti al di là della negazione a tutti i costi, dando però origine a variabili inaudite. Sono stati presi tutti in contropiede. Attori e spettatori.
Sui muri dell'università di Roma scrivevano: “Non è il '68. E' il '77. Non abbiamo né passato, né futuro. La storia ci uccide”. A Londra i Sex Pistols urlavano “No future for us!”, “Anarchy in the UK”. Dalla sponda opposta del Tamigi rispondevano i Clash: “London's burnin'”, “1977: no Elvis, Beatles or Rolling Stones!”.
Begli slogan, ma alla fin fine sono i proverbi a restare in mente. Del tipo, “can che abbaia non morde”: i saccenti sessantottini tengono tuttora stretti i privilegi su cui avevano sputato ai tempi della piazza, incensandosi a profeti della rivoluzione. Nel 1998 la televisione celebrò il 30° anniversario dell'anno che cambiò la storia con fanfare da salotto, film revival e il pingue volto di Liguori ad incarnare i sogni di Mario Capanna. Oggi non una parola sull'anno della rabbia. Non un accennno ai suoi martiri e ai suoi provocatori. Non un raffronto coi brigatisti di ieri. Non una parola spesa sul “perché” del terrorismo. Solo chiacchiericcio alla Bruno Vespa. E pensare che Enzo Biagi, suo collega per la popolare rubrica televisiva “Proibito”, osava mostrare scene cinematografiche di nudo insieme a Cicciolina!
Nonostante gli spilloni da balia, conficcati nell'effigie di Elisabetta II dai punk, la Regina è più in sella che mai (maldipancia permettendo) e non ha perso il cattivo gusto per i tailleur sgargianti; certamente qualcuno ha pagato caro: il 16 agosto del '77 si è spento per sempre il microfono di Elvis, così come altri grandi hanno gettato la spugna. Da Chaplin alla Callas, risalendo al maldestro centrocampista della Lazio Luciano Re Cecconi, freddato dall'amico gioielliere per l'assurda messa in scena di una rapina. Chi è rimasto, non è più stato lo stesso: i Rolling Stones hanno fissato così a lungo l'indice solenne del candido John Travolta, finendo per trasformarsi da “street fightin' musicians” a icone prigioniere del loro stesso mito.
Insomma, gira e rigira la storia finisce per ripetersi, ma in Italia si autoclona sino alla nausea: qui lo spirito del 1977 è l'unico ad essere morto e sepolto, al pari dello sfortunato Joe Strummer. Chi si ricorda più dello studente di medicina Guido Bellachioma, vittima delle pistole di Roma il 2 febbraio? Chi ha reso giustizia a Francesco Lo Russo, militante di Lotta Continua finito con un proiettile nel petto l'11 marzo a Bologna, nel giorno più cruento che la Prima Repubblica ricordi? Chi piange la “povera” Giorgiana Masi, accasciatasi il 13 maggio sulle strade dell'Urbe, per un dolore allo stomaco che ha affossato il futuro stesso del femminismo? E con loro, sono stati inghiottiti nel grigiore dell'eccesso decine e decine di altri giovani insoddisfatti, emarginati, sfruttati, dimenticati, che per fortuna si sono persi il voto degli operai per Berlusconi, il declassamento dell'Urss di Lenin ad innocuo cimelio, ma anche il tramonto dell'ero a favore della coca, la smentita del sesso vaginale come atto di prevaricazione sulla donna libera, la presa alla lettera di “Porci con le ali”. Bene o male che sia, urgerebbe una posizione. Oggi si alzano le spalle, perché se tanti sono i meriti del '77, altrettante le sue colpe: ha aperto la strada al disimpegno, all'edonismo, al precariato, lasciando solo ombre contraddittorie.
Acuti di rabbia, tracce di violenza e un inquietante sentore di morte aleggiano su quell'annata e su chi di essa se ne sente figlio. E' aria viziata, a tratti rarefatta, a tratti così densa da togliere il respiro.
Per questo chi è nato nel '77 non conosce altra via da calcare se non la fuga. Amiamo sottrarci, defilarci, fare i preziosi, amiamo bearci del nostro diniego e della nostra nudità, sino ad apparire più esibizionisti degli adolescenti arrapati, più irresponsabili dei bimbi grassi, più inibenti dei contratti a progetto.
Abbiamo bisogno di viaggiare, perché la terra ci scotta sotto i piedi: così giriamo il mondo, spingendoci dalle sabbie del Sahara ai ghiacci della Yakutia, per incontrare ovunque lo stesso martellante silenzio. Abbiamo bisogno di alcool e droga, perché la quotidianità è talmente trasgressiva che ha perso tutta la sua eroticità: una donna dietro l'altra, tutte terribilmente uguali, nel momento in cui rivendicano la loro inconsapevole sottomissione, il loro diritto alla proprietà e al silicone. E che dire degli uomini? Ridicoli nel loro scambiare l'atavico nomadismo in bieco ronzare attorno. Abbiamo bisogno dei condom, perché ci hanno tolto persino il diritto di fidarci dell'altro: tutti nell'occhio del Grande Fratello, ognuno con una maschera sempre nuova. Abbiamo bisogno di tutto, ma non abbiamo la forza per niente.
Aspettiamo. Assentiamo democraticamente. Tutt'al più brontoliamo, benché la legge non sia mai uguale per tutti. Ma quando dritto e rovescio assumono lo stesso colore, non resta che una sola scelta: il pugno alzato al cielo. L'indice puntato sul grilletto. In una parola, rivoluzione!
Il 1977 lo aveva capito. Ma come avrebbe detto qualche attivista di Autonomia Operaria: “abbiamo mandato tutto a puttane...”.
Abbiamo fatto scadere la necessità della rivoluzione nella gratuità del terrorismo.
Marx è morto. Viva Marx!
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