IL TICCHETTIO DELLA POLVERE
Atterrati in Giordania, è d’obbligo aggiornare il quadrante del proprio orologio, facendo avanzare di un’ora la corsa delle lancette. Eppure, rialzato lo sguardo, le colonne ioniche del foro di Jerash sembrano non essersi assolutamente accorte di questa moderna astuzia, che gioca col tempo e le sue rughe. Dal I secolo svettano imperturbabili verso un cielo tanto azzurro, da apparire quasi un oceano sospeso sopra un immenso deserto roccioso. Non è solo merito delle sorprendenti tecniche antisismiche utilizzate dagli architetti romani, che diedero qui vita ad una delle capitali di provincia meglio conservate al mondo, ma anche del clima secco e poco piovoso della regione, grazie a cui resti neolitici hanno potuto affiancare testimonianze greche, bizantine, ommayyadi e mille altre ancora. La Giordania è una terra che chiede di essere scavata, affinché l’arcobaleno delle sue stratificazioni possa di nuovo illuminare le strettoie del “siq” lungo le quali si accede ai tesori criptici di Petra, così come i mosaici floreali di cui si fregia la città di Madaba. Ma è pure una terra che si concede liberamente al piacere del velo, dietro cui brillano gli occhi di passanti incuriosite dal vento dell’Occidente, pronte a sottrarsi solo per meglio invitare.
E’ la meraviglia dei discepoli di Sais ad essere invocata, la possibilità di fantasticare sull’indizio di una singola traccia: chiedersi quale mai sia il vero volto di una delle più insigni rappresentanti della Decapoli mediorientale, cioè la lega delle dieci città egemonizzanti i traffici commerciali d’epoca ellenistica ed imperiale, dove accanto agli imponenti templi di Zeus ed Artemide, o alle porte maestose e agli altrettanto monumentali tetrapili, 3000 posti del teatro fatto costruire da Diocleziano riescono ancor’oggi a riempirsi dello stupore delle masse. Poco importa se non sono più cittadini dell’Impero, o fedeli di Bisanzio; i costumi, le acrobazie e le musiche che volteggiano durante il festival di fine giugno qui ospitato sono comunque il meglio che il folklore mondiale possa offrire.
Ci sono frammenti che ancora parlano delle loro vetuste origini, come le migliaia di tessere rappresentanti la terra Santa del VI secolo nella chiesa di S. Giorgio a Madaba, su cui un tempo scorrevano fiumi, s’innalzavano torri e s’inabissavano sepolcri in un manto di 15,7 per 5,6 metri di larghezza, o i variopinti atomi consacrati al mito dell’incestuosa Fedra, sapientemente aggregati nelle alchimie di mosaicisti trasmesse ai discepoli odierni.
Ci sono testimonianze che non fanno appello alle virtù dell’occhio, bensì del cuore: il sepolcro di Mosè sul Monte Nebo, attorno a cui venne elevata nel IV secolo una cappella consacrata dal sogno mistico della pastorella Egira, è una sfida per il passo audace del pellegrino, tanto quanto per l’esploratore pronto a violare le ombre tombali della capitale dei Nabatei, l’imprendibile Petra. Sulle orme del suo moderno scopritore, lo svizzero Johann Burckhardt (1812), saccenti cammelli guidano alla maestà della Tesoreria (30 metri di larghezza per 40 di lunghezza), il cui sovrapporsi di colonne corinzie, timpani spezzati e barlumi di eclettiche divinità, misero in soggezione persino Indiana Jones, tanto da far scordare che oltre a questo indiscusso capolavoro della scultura nella roccia, la città vanamente assediata dal figlio di Antigono II conserva altre 500 tombe monumentali ed abitazioni civili, celate negli anfratti di monti dolcemente levigati, culminando nell’enorme monastero di una vetta dal valore assai maggiore di 800 gradini.
Ci sono infine segni senza età, incisioni di mani zingare che vollero narrare alla storia la loro preistoria, raffigurando nelle scene di caccia o negli inseguimenti ludici i travagli vissuti dalle proprie carovane, per secoli disposte a sfidare le aride gole del deserto di Wadi Rum in omaggio alle virtù della seta e dell’avorio: 350 chilometri quadrati di sabbie rosate, cespugli scapigliati e complessi rocciosi alti sino a 1700 metri, irresistibili per scalatori estremi, ma anche suggestivi rifugi per iene, stambecchi, aquile e per rarissime specie della flora come della fauna. All’ombra di un ponte naturale di pietra, o sotto lo strapiombo di una muraglia calcarea, gli accampamenti dei beduini si rivelano un’oasi di piaceri ormai dimenticati dalla civiltà, come sedere attorno ad un falò per lasciarsi cullare dallo sciabordio dei cieli stellati, dalla primavera dei sapori evocati attraverso le carni d’agnello arrostite sotto le sabbie, per arrivare alla frenesia dei balli tribali sulle dodecafoniche note dell’od e ai tambureggiamenti del daff o della darbuka. Ovunque ci si trovi, la Giordania non può che dispensare un crogiolo di sensazioni contrastanti e per questo sempre vitali, esattamente come capita aggirandosi per il coloratissimo “suq” di Amman, dove urla, ultime offerte, tessuti pregiati e luccicanti argenterie si commistiano nell’inesauribile vertigine del mercato…sino a confondere la veglia con un sogno lungo mille e una notte.
1 commento:
La ringrazio per intiresnuyu iformatsiyu
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