Dieci. Quindici metri al massimo. A spanne era più o meno quella la distanza che li teneva separati dalla piana ariosa. Ma ancora per poco. Non appena la notte fosse calata dietro le sbarre arrugginite del lucernario, il piano sarebbe scattato immediatamente.
“E’ troppo facile! – brontolò come al solito Sergeij – Ti pare possibile che non si rendano conto di com’è conciata la nostra cella? Dammi retta, ci hanno teso una trappola: sì…forse ci lasceranno andare, ma solo per gioco. Per sadismo. Così potranno incastrarci per sempre e…addio sogni di gloria, amico mio!”
Konstantin sedeva tranquillo sulla sua brandina. Stava sorbendo il tabacco da quattro copechi lasciatogli in eredità dall’omicida del terzo livello. Il giorno prima che venisse giustiziato, avevano camminato a lungo nel cortile del carcere: non si erano scambiati molte parole, perché entrambi coltivavano la stessa speranza ed era inutile parlare di banalità. Contava soltanto la loro promessa, alla quale si erano votati poche settimane prima, sotto un faggio striminzito. Se uno dei due fosse riuscito a fuggire, avrebbe fatto il possibile per liberare l’altro: certo come un comandamento. Dopo aver trascorso quasi una vita assieme, scandita quotidianamente dall’irreversibile ritualità dell’umiliazione, sarebbe stato impossibile avviare una nuova esistenza, senza la benedizione del più caro fra i compagni di sventura.
A Juri non era andata bene, purtroppo. Lo avevano pizzicato mentre rubava dei coltelli in mensa: l’occasione d’oro per dimostrare che si trattava di un delinquente irrecuperabile, molto pericoloso e subdolo. Venne trascinato in catene nell’ufficio del direttore e lì, con un processo sommario imbastito fra una partita a scacchi ed un bicchiere di vodka, fu condannato a morte come una mosca fastidiosa. Lanciarono i dadi: l’uscita del sei sancì la sua sorte. Levandosi una scarpa troppo stretta, il direttore aveva gridato ai suoi collaboratori intimoriti: “una bocca in meno da sfamare, un punto in più per la medaglia al merito!”. Tutti risero a denti stretti e il caso fu chiuso.
“Mmmm…vediamo un po’ come spezzare la monotonia… – aveva subito insinuato il consigliere del boia, mentre sfogliava un libro ingiallito leccandosi la punta delle dita – ah! Ecco qui! Questa fa proprio al caso nostro”.
“Trovato qualcosa d’interessante?” – osservò eccitato il direttore
“Sì. Un bell’esempio. Vorrei che il condannato facesse confessione pubblica al centro del cortile, affinché la gente del suo stesso sangue possa udirne le parole da dietro le grate”.
Gli esecutori si avvicinarono per ascoltare meglio, fregandosi le mani e borbottando oscenità.
“Lo condurrete al patibolo dentro una carretta, coperto solo di una camicia: là gli verranno tagliate le mammelle, le braccia, le cosce ed il grasso delle gambe, mentre la mano destra macchiatasi di furto verrà bruciata con fuoco di zolfo”.
“Tutto qui? Merita molto peggio un delinquente simile” – obiettarono alcuni, vivamente insoddisfatti
“Allora seguiamo alla lettera le indicazioni – riprese il consigliere – e mettiamoci quanta più dedizione possibile, perché siamo noi l’immagine della giustizia in terra! Sui punti ove sarà tanagliato, gettate piombo fuso, olio e pece bollente, con cera e zolfo fusi insieme: dopodiché il suo corpo sarà tirato e smembrato da quattro cavalli, in attesa della morte benedetta, che porterà le fiamme della purificazione sulla sua carne malata. Il vento ne custodirà le ceneri per i tempi a venire”.
Nella sala scrosciò un lungo applauso, tanto lungo e fragoroso che, alla fine, il collaboratore del boia iniziò a schermirsi dicendo di non aver fatto nient’altro fuorché il suo dovere.
Konstantin, pensando all’amico trascinato nel cortile, smise di fumare, sorpreso da un urto di nausea. Ricordava per filo e per segno ogni contrazione del suo volto, l’orrore iniettato negli occhi, lo spasmodico desiderio della morte liberatoria. “Proprio a lui doveva capitare – sussurrò sgomento – a lui che tanto aveva amato la vita, che ne aveva esaltato i colori e i profumi: in quel momento aveva cancellato anni di fede con un solo, muto balbettio”
“Come dici?” – Sergeij era sobbalzato dallo spavento, non essendo abituato ad udire spesso la voce del suo compagno.
“Niente. Penso alla nostra felicità”
“Già….manca poco, ormai. Che dio ce la mandi buona!”.
Lo squartamento di Juri era durato a lungo. I cavalli di cui ci si era serviti non erano infatti abituati a tirare, cosicché fu necessario aggiungerne altri due. Dal momento che era un uomo tutto d’un pezzo, si dovette pure procedere al taglio dei nervi delle cosce, troncando le giunture con una scure: “Mio Dio, abbi pietà di me! Soccorrimi!” – quando non aveva urlato di dolore, erano state solo le invocazioni di pietà a riempire la sua bocca ricolma di sangue.
“Non aver paura fratello – aveva tuonato il confessore – tutti noi soffriamo con te! Ti offriamo la liberazione dai tuoi peccati…gioisci, perché questo è il giorno più felice della tua vita…bacia, bacia il crocefisso!”
Tanto lo aveva premuto sulle sue labbra sfregiate, che il minuto volto di Cristo era tornato a sanguinare per la seconda volta in terra. Al contrario, quando avevano acceso lo zolfo, il fuoco era stato così debole che la pelle di Juri ne fu danneggiata appena, mentre il boia infieriva nello strappare pezzi di carne, quasi stesse preparando una grigliata mista per gli amici. Ogni tanto gettavano colate bollenti sulle sue piaghe, lo sfrigolio delle quali aveva un che di surreale.
Legategli quindi le corde agli arti, i cavalli diedero un primo violento strappo. Ne seguì un secondo, un terzo e pure un quarto. Juri resisteva, alzando la testa allucinato in cerca di uno sguardo amico, di una gesto di consolazione, o forse del colpo di grazia. Alla fine decisero di tagliare la carne sino all’osso, mediante coltelli affilatissimi: l’ultimo strattone dei cavalli fu decisivo. Le quattro parti del suo corpo martoriato fuggirono d’improvviso oltre la polvere del cortile.
Benché, a quel punto, tutti credessero che Juri fosse morto, Konstantin solo riuscì a cogliere l’estremo commiato dell’amico: si era agitato ancora per pochi secondi, facendo sobbalzare la mascella freneticamente, quasi volesse dire qualcosa. Poi si sentì uno sparo. Proveniente da dove, nessuno riuscì a capirlo. Forse dal cielo.
La tetra luce della cella si spense di colpo.
“E’ ora, amico mio!”
I due carcerati iniziarono a grattare simultaneamente alla base del lucernario. La calce e l’intonaco si sbriciolavano come fango secco. Man mano che l’odore di terra umida si insinuava nelle loro narici, il cuore tornava a battere all’impazzata e la brama d’aria fresca riusciva persino a cancellare il dolore delle unghie spezzate. Scavavano, scavavano e scavavano ancora, senza sosta, turbati appena dalla paura di fare troppo rumore, risvegliando in tal modo il sorvegliante di turno.
“E’ pazzesco – osservò Sergeij – questa cella si sta letteralmente sbriciolando!”
“Sarà perché siamo esposti a nord…” – tagliò corto il suo compare
“Aspetta un attimo: una volta aperto il buco, che cosa facciamo? Credi sia davvero conveniente buttarsi di corsa attraverso il cortile, o è meglio correre a lato, lungo il perimetro della recinzione?”
“A questo punto bisogna rischiare! Quanto più celere sarà la fuga, tanto maggiori saranno le possibilità di eludere la sorveglianza”
“Se lo dici tu…sai, al pensiero mi tremano un po’ le gambe!”
“L’ho sempre detto che sei una femminuccia, malaticcia e piena di acciacchi…”
“Dio mio, una femmina! Una femmina in carne, con tutte le forme al posto giusto...ecco di cosa avrei bisogno una volta libero! Allora ti passerebbe la voglia di fare dell’ironia…”.
Risero nervosi e complici. Nonostante tutto, Konstantin non dava mai segni di cedimento o d’incertezza. Quando si era accorto della friabilità del basamento al di sotto del lucernario, si convinse subito che quello fosse un auspicio del successo loro riservato. Dal caso o dalla provvidenza, non aveva poi molta importanza: ci avrebbe pensato più avanti, quando il suo compito principale sarebbe consistito nel contare le pecore nel cielo azzurro. A notte fonda, la falda iniziale si era ormai trasformata in una breccia di notevoli dimensioni.
Non persero tempo. Scambiandosi una profonda occhiata d’intesa, si precipitarono a testa bassa verso la recinzione, correndo come forsennati. Paradossalmente, contro un’opinione indotta ed ossificata nel corso di interi decenni, la maggior parte delle sentinelle se ne stava abbiosciata sul pavimento delle torrette di sorveglianza, ad un passo dallo sbadiglio fatale: l’assenza di evasioni e di novità sensazionali all’interno del carcere avevano rosicchiato a poco a poco i loro scrupoli, trasformandole in biechi bevitori e pedanti assonnati.
Il contrasto fra la sanguinaria disciplina imposta nelle celle e l’ostentato lassismo circostante sorprese sgradevolmente i due fuggiaschi, risvegliando una sensazione di totale assurdità, alla quale, per anni, la loro vita aveva dovuto soggiacere, al pari delle aspettative riposte in un futuro nebbioso.
Scavalcarono le mura in tutta tranquillità, senza che nessuno osasse sporgersi dagli steccati o puntare i riflettori sopra il filo spinato. Una passeggiata, forse appena più impegnativa di quelle che solevano condurre nel cortile sterrato.
“Non ci posso credere – osservò a braccia spalancate Sergeij, mentre affondava lo sguardo oltre le colline – sto per diventare un uomo libero. Ma quanto è durata questa dannata fuga? Cinque minuti? O forse un po’ di più?”
“Hai ragione, è sconvolgente! Un'evasione del genere non ha proprio nulla di eroico: sembra prassi comune, cosa di tutti i giorni. Quasi mi sento preso in giro…è un affronto all’intelligenza dell’uomo!”.
Konstantin stava tremando. Sferzati da un vento gelido ed ululante, i due si misero a correre nell’oscurità, decisi ad abbandonare per sempre quel luogo fuori da ogni ragione. Percorsero chilometri e chilometri, attraversando foreste spoglie e prati rinsecchiti, sui quali erano disseminati strani cartelli con segni gialli e neri. Saltuariamente si udivano levarsi versi sinistri di rapaci affamati, ma il passo continuava ad avanzare sicuro e deciso, finché una pausa si frappose inaspettata.
“Che hai, Sergeij?”
“Non mi sento bene…la testa, la testa mi esplode!” – non fece neppur in tempo a portarsi le mani alle tempie. In una frazione di secondo stramazzò al suolo, completamente irrigidito e con la bava alla bocca. Konstantin lo squadrò impietrito.
“Cristo santo, è morto!”. Cercò di smuoverlo con la punta del piede. Niente da fare: sembrava un pezzo di legno. Ancora incredulo per quanto accaduto, madido di sudore, si gettò alla disperata ricerca di un mezzo di trasporto, affinché potesse lasciarsi alle spalle l’incubo in cui era sprofondato e riaprire gli occhi in un mondo migliore. A pochi metri da un incrocio, scorse infine una vecchia utilitaria parcheggiata in una piazzola. Non aveva dubbi su cosa dovesse fare: ora era tutto chiaro.
Infranse il vetro con una pietra acuminata e, facendo contatto sotto il volante, riuscì subito ad avviare l’auto. Bastò poco per riacquistare dimestichezza con i pedali. Il futuro stava aspettando già da un bel pezzo.
“Sei solo, sei rimasto solo, Konstantin! Non puoi più contare su nessuno….persino il contagiri appartiene ormai ad un'altra dimensione – ridacchiò isterico – guarda qui…basta calcare un poco l’acceleratore per recuperare i decenni perduti…”
Raggiunti i cinquanta all’ora, sulla corsia laterale aveva improvvisamente incrociato un'auto bianca, dal profilo bombato e con i finestrini oscurati. Sembrava uno di quei modelli che, tempo addietro, aveva visto su una rivista americana dedicata alla gioventù del dopoguerra, con pochi chili addosso, ma ricoperta di una brillantina pastosa. Calcò ancor più l’acceleratore, raggiungendo i settanta all’ora: sebbene la macchina bianca fosse scomparsa alle sue spalle, nello specchietto retrovisore scorse ora i fari luminosi di un bolide appena superato, molto piatto e dal netto profilo geometrico. Inspiegabilmente correvano tutti nella direzione opposta.
Preso dall’euforia, Konstantin non riuscì più a trattenersi: voleva assaporare di nuovo l’ebbrezza della guida spericolata, spingendosi verso quel punto misterioso in cui le auto non avrebbero potuto far altro che dileguare come foglie autunnali, liberando spazi assorti lungo carreggiate impassibili. La lancetta del contagiri proseguiva in crescendo la sua inesorabile marcia.
“Dai bella, muoviti! – e strapazzò il clacson – io ho fretta! Una nuova vita mi attende…avanti, levati di mezzo! Sto per andare là dove nessun mortale ha mai avuto l’ardire di spingersi…” . Accelerò ancor più, affiancando l’auto che correva sulla seconda corsia.
Una donna pallidissima, tranquillamente adagiata sul sedile di guida, si voltò all’improvviso e fece cenno a Konstantin, proprio nel momento in cui la stava occhieggiando spavaldo dal finestrino: per un attimo sobbalzò, avendo scorto sul suo volto un’espressione di inusitata perfidia.
Anche lei era al volante di un’auto fuori moda e, impassibile, si ostinava a tenere gli occhi puntati sulla strada, nella direzione verso cui aveva alluso poco prima. Gli sbuffi d’aria all’interno dell’abitacolo avevano scompigliato i suoi lunghi capelli, che fluttuavano ormai come serpenti d’acqua, mentre il pesante mascara liquefatto dall’umidità rigava di nere lacrime il suo scarno viso.
Il confronto si trasformò in un testa a testa tanto serrato che, alla fine, Konstantin si accorse di aver dato in pasto la polvere a tutti i suoi inseguitori. Persino a quella strana donna, che viaggiava con un solo guanto. La lancetta del contagiri finì ben presto per oltrepassare la soglia proibita, catapultandolo in una cittadina deserta.
“Che posto è mai questo? Sembra che qui stiano dormendo tutti profondamente. Non si sente volare una mosca. Beh, tanto meglio: al loro risveglio darò meno nell’occhio!”.
Reclinò il sedile. Anche per lui era giunto il momento di concedersi alle spire del sonno.
Quando riaprì gli occhi, si accorse che era quasi mezzogiorno passato. Sebbene in carcere fosse stato costretto ad alzarsi per anni ed anni al sorgere dell’alba, adeguando i ritmi del suo corpo ai meccanismi di una sveglia infallibile, il silenzio sepolcrale della cittadina lo aveva privato di qualsiasi riferimento cronologico, sprofondandolo in un oblio abissale. Sceso dall’auto, ormai pregna degli odori della notte, non ebbe neppure il coraggio di inalare a pieni polmoni una boccata d’aria fresca: il terrore di udire solo se stesso, l’eco dei suoi sbuffi, il sibilo attutito della saliva pastosa, nel bel mezzo della via principale che tagliava la città, inibì ogni sua mossa.
“Nessuno – osservò sgomento – non c’è più nessuno. Eppure le abitazioni non sembrano abbandonate, le insegne sopra i negozi sono ancora accese, persino le edicole sono ricolme di giornali. Anzi, a proposito di stampa…”
Si avvicinò ad uno dei tanti chioschi che costeggiavano il corso centrale ed iniziò a frugare in mezzo a riviste e videocassette, in cerca dell’ultimo quotidiano.
“Questo giornale è di sei giorni fa…anche questo – osservò allarmato, sfogliando con maggior concitazione le copie vicine – sono tutti superati! Mio dio, è come se il tempo si fosse arrestato all’improvviso! Eppure questa cittadina non ha l’aria di essere abbandonata…”.
Konstantin girovagò tutto il giorno per le vie del centro. Non trovò altro che porte sprangate, biciclette abbandonate per terra, orti incolti dalle invitanti verdure, che nessuna mano si era curata di cogliere. Verso sera decise di fare marcia indietro, tornando verso gli insediamenti che si era lasciato alle spalle. Là, forse, gli avrebbero fornito una spiegazione su quanto accaduto in quella cittadina. Giunto all’altezza del vecchio penitenziario, bloccò l’auto insospettito dall’immobilità dei fasci di luce proiettati dai riflettori delle sentinelle.
Si avvicinò con estrema circospezione ad una delle entrate laterali, celandosi nell’ombra. Ma, ancora una volta, udì solo l’eco agghiacciante dei suoi passi. Forzò l’ingresso.
“E’ aperto! Ma che diavolo sta succedendo? Sono spariti tutti anche qui!”. Dopo aver esplorato l’intera struttura in preda ad una crescente inquietudine, riuscì persino ad entrare nell’ufficio della direzione, ove fece incetta di documenti e dossier, al pari dei pesanti libri sparpagliati sopra le scrivanie: “qui troverò di certo una risposta!”
Nonostante i morsi della fame lo spingessero verso l’unico posto che poteva garantirgli cibo in abbondanza, non fece subito ritorno alla cittadina ove era pervenuto il giorno precedente. Attraversò molti altri villaggi limitrofi, spingendosi sempre un po’ più in là, finché allibito e divorato dall’orrore chiuse il cerchio del suo insulso peregrinare.
“Ora è davvero troppo. Inizio persino a dubitare che siano esistiti altri uomini: siamo rimasti solo io….e il mio Dio, che dall’alto dei cieli non ha mai smesso di guardarmi benevolo. Fortuna che ho trovato questo foglietto sopra una scrivania: se c’è scritto “sono qui!”, significa che qualcuno è nei paraggi. Che esiste davvero. Nascosto chissà dove, ma in ogni caso presente…”.
Rassicurato dall’enorme disponibilità di viveri dei supermercati, Konstantin diede gradualmente avvio alla sua nuova vita, fatta di inusitati silenzi e di mortificante solitudine. Le sue ricerche, tuttavia, non maturavano alcun frutto, scoraggiandolo sempre più. Ogni azione quotidiana seguiva un rigido e dettagliato rituale che, malgrado tutto, lo aiutava ad accettare il presente sotto la veste di un’eccentrica normalità: “non rubo alcuna rivista all’edicole – si ostinava a ripetere mentalmente – le prendo solo in prestito: quando i legittimi proprietari torneranno, chiederò loro il dovuto. Non sono mai stato un ladro, io. Lo stesso dicasi per le piccole spese che faccio nei supermercati: sto addebitando su un libretto tutto ciò che consumo. Perché sono una brava persona, io; sì, sono davvero una brava persona…”.
Tutte le sere, fra l’altro, si recava in chiesa per pregare con devozione, accendendo una candela, nella speranza che Dio parlasse al suo discepolo e spezzasse quel silenzio così ossessivo.
Un giorno Konstantin decise di vagliare al dettaglio il materiale che aveva prelevato nel carcere. Scartabellò per ore fra minuziose tabelle e subdole annotazioni, ma più si ostinava a cercare, più il mondo in cui aveva vissuto assumeva tratti irreali, sfumando i suoi limiti fra ricordi mutilati e prolisse fantasie.
“L’unica cosa interessante è solo questo libro, appartenuto probabilmente al consigliere del boia: riporta per filo e per segno quanto accadeva nel carcere. Ed è orribile pensare che le punizioni inflitte venissero applicate prendendo spunto da mere speculazioni, dalle ossessioni di una mente deviata. Questa, ad esempio, è tanto raccapricciante che…”
Puntò lo sguardo con maggior attenzione, venendo presto catturato dalla lettura. A pagina seicentosessantasei era descritta nei minimi dettagli la morte di Juri: non si faceva il suo nome, ma le circostanze, i luoghi, i responsabili dell’esecuzione erano le stesse persone che Konstantin aveva conosciuto.
“Conosciuto? – ripeté perplesso – conosciuto? Ma che sto dicendo? Ho letto troppo, per oggi. Inizio a confondere ciò che ho letto nei giorni addietro con quanto ho fatto nella mia vita. In fondo, devo smetterla d’illudermi. La verità è che non ho mai avuto amici, com’è vero che non ho mai vissuto accanto a nessun altro, fuorché a me stesso. Purtroppo sto invecchiando…”.
Le sue condizioni fisiche erano andate peggiorando assai celermente. Quando soffiava il naso, perdeva molto sangue dalle narici, così come dalle gengive. Una volta aveva osato avvicinarsi allo specchio, convinto di ritrovarvi il prestante uomo che teneva le redini dei suoi pensieri: l'immagine riflessa era stata choccante. Aveva scorto solo il volto giallastro di un vecchio dalla pelle macchiata, quasi calvo, scosso da un tremolio tanto impercettibile quanto insistente.
Da tempo, poi, aveva rinunciato a compiere quelle esaltanti incursioni nelle abitazioni sprangate che, in precedenza, si era severamente proibito: “per quale sciocco motivo, dovrei rinunciarci? – aveva urlato in un pomeriggio di sole – mi ostino a vivere come se esistesse un altro, o comunque qualcosa differente dalle mie stesse creazioni: ma al di là di questo immoto silenzio non c’è nessuno, non c’è mai stato nessuno, neppure il mio amato Dio. Sono io il vero Dio. Tutto vive da sempre nella mia mente!”
Konstantin ottenne dunque l’assenso a violare i segreti più remoti, a frugare in cassetti che parlavano di storie mai esistite, a non rispettare alcuna forma di pudicizia o regola morale: urinava a cielo aperto, in mezzo alle strade, urlava come un animale in calore sui tetti delle abitazioni, si lavava solo se aveva caldo e rompeva di proposito porte che chiedevano solo di essere sospinte. Una sera, però, si accorse che sulla scrivania della sua abitazione era stato abbandonato un nuovo foglietto.
“Sto arrivando! – gridò fuori di sé – qualcuno ha scritto “sto arrivando!”. Allora era vero, non sono mai stato solo! Ho sbagliato a cercare, non sono stato capace di vedere oltre: è stata soltanto colpa della mia superficialità!”.
Si accasciò esausto su una poltrona. Perdeva molto sangue da naso, era ormai completamente calvo e un dolore lancinante lo piegava da tempo sul fianco. Chiuse gli occhi arrossati, affinché le poche forze rimastegli in corpo non lo abbandonassero proprio nel giorno della rivelazione. Attese in quella posizione per lunghe ore, eccitato come un bambino rugoso. Fuori casa doveva soffiare un vento forte, perché le persiane e le fronde degli alberi si scuotevano folli di rabbia. Ma all’improvviso tornò ad incombere una quiete profondissima.
“Sono passi, quelli che odo in lontananza? – mormorava in preda ad un’agitazione incontenibile – sono passi…o è l’eco attutito del sangue che pulsa nelle mie tempie, nelle mie orecchie? No, no,devono essere passi….il fatto è che sono ancora troppo lontani…ma quando la porta si aprirà, non ci saranno più dubbi! Ecco, questo è il suo inconfondibile cigolio!…Chi sei?…Chi sei? Ti prego, dimmi chi sei? Ti ho atteso per tutta la vita…ed ora non ho più neppure la forza per guardarti in faccia!”
La porta si spalancò con violenza. Konstantin tese le orecchie, preso quasi dalle convulsioni. Percepiva nell’aria la presenza di un essere dolcissimo, materno e pieno di amore. Gli tornò alla mente il volto di quella pallida donna con cui aveva ingaggiato una sfida in macchina, mentre si dirigeva verso la cittadina deserta.
“Non può che essere lei! Era l’unica persona che ho visto correre nella mia stessa direzione! Non era tanto bella…ma, in fondo, che importanza ha?…Qual è dunque il tuo nome?”
Silenzio. La porta si richiuse ora con dolcezza, ma nella stanza non si udiva alcun respiro, né rumore. Neppure quelli tanto famigliari a Konstantin. La sua mano si aprì abbandonata, lasciando cadere a terra il foglietto sui cui era stata scritta la promessa disattesa. Scivolando nel vuoto, si rivoltò su se stesso: sul lato opposto, spiccavano solo lettere scolorite. “Sono qui!”.
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