"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

venerdì 15 luglio 2011

PER UN'ICONOGRAFIA RIVOLUZIONARIA

La Rivoluzione Socialista d’Ottobre è nata sotto il segno del paradosso: tutti sanno infatti che, per quanto venga definita “Rivoluzione d’Ottobre”, in realtà essa ha avuto luogo in novembre. Il 7 novembre (25 ottobre per il vecchio calendario ortodosso) 1917. Una coincidenza alquanto curiosa, visto che i concetti su cui maggiormente opera l’iconografia sono lo spazio e il tempo, due delle chiavi di manipolazione della percezione umana.La parola dominante fu: fare a pezzi il passato (“distruggeremo tutto il mondo della violenza, fino alle fondamenta”, scandiva il coro dell’Internazionale) per ripartire dalla tabula rasa di un mondo inedito, fondato su principi e valori diversi o opposti ai precedenti, irrimediabilmente inquinati: autocrazia zarista, economia rurale stagnante, terrorismo, violenza, repressione.

Uno dei concetti chiave delle tecniche di rappresentazione sovietiche è quello di “segno in movimento”, cioé di un messaggio visivo “etico” che non trasmettesse una nozione, bensì lo stimolo ad un’azione. Questa strategia poteva essere espressa al meglio solo attraverso i nuovi stili astratti e futuristi, ma le scelte grafiche ad essi connesse non riscossero il favore del pubblico contadino, impreparato ad una così rapida eliminazione dei criteri figurativi. I bolscevichi furono dunque costretti a mediare il nuovo slancio con lo stile rappresentativo della stampa popolare d’antica tradizione, convertendone i soggetti (stilizzazioni di eroici soldati, contadini, operai) a tematiche prettamente sovietiche (dalla vita bucolica ed atemporale nei campi alle lotte urbane del presente proletario) e corredati dagli inevitabili compagni dell’istruzione popolare sovietica: gli slogan.


Due erano le fonti d’ispirazione per la rivoluzione comunicativa: le immagini variopinte e vivaci dei vagoni prima, e gli agitki (filmati d’agitazione) poi, entrambi in grado di ammaliare facilmente gli ignari spettatori, in quanto mai raggiunti da tali forme d’arte e tecnologia.
Treno e cinema finirono così per influenzare la concezione propedeutica che il nuovo manifesto rivoluzionario (plakat) avrebbe dovuto rivestire, inserendo nella monumentalità della figura e nella solennità epica delle situazioni il principio della “trasformazione in atto”, di uno sforzo chiamato a compiersi, trasferendo su tela l’idea del divenire, anziché dell’essere: le figure rimanevano leggermente incompiute, i gesti venivano sospesi, lasciando colmare (o meglio completare) alla fantasia dell’osservatore il buco percettivo volutamente indotto. I messaggi complementari apparivano sempre essenziali, semplici, musicalmente attraenti, raggiungendo facilmente le masse.

Lo stile degli anni ’20 sposa strascichi di espressionismo a geniali guizzi costruttivisti: linee, frecce, angoli, spazi composti e ben delineati rappresentano infatti le coordinate stilistiche di maggior tendenza. Ancora una volta, però, l’arte sovietica viaggiava troppo in fretta sulla sensibilità dei tempi; le sue creazioni verranno allora accostate ai canoni del lubok (stampa popolare d’origine secentesca), parallelo laico e ludico dell’icona classica, scoprendone l’ironia. Negli anni della Nep (Nuova Politica Economica), i lubki tornarono in auge fra l’altro sotto forma di copertine librarie, sebbene dal 1920 fosse già cominciato il procedimento di accantonamento (o, per meglio dire, del tentativo di accantonamento) della stampa popolare in favore del nuovo (ma ancora indefinito) prototipo di manifesto rivoluzionario. Qualche anno dopo sarebbero iniziate la stampa e la distribuzione dei lubki-plakaty (stampe-manifesti), ennesimo tentativo-compromesso di combinare senza troppi traumi tradizione e rivoluzione, gusto popolare ed avanguardia.

La differenza più fondamentale fra plakat (manifesto) e lubok, oltre quella relativa alla più ovvia scansione cronologica, stava nel fatto che il primo (nato negli anni ruggenti) era politicamente inteso per l’uso e la fruizione collettiva, mentre il secondo era commercialmente diretto all’acquirente-fruitore individuale. Il lubok, dunque, poteva contare su un’influenza prolungata nel tempo, sviluppabile in situazioni domestico quotidiane.
A questo proposito, il testo, finendo a mo’ di didascalia sotto l’illustrazione, si trasformava in slogan, modellato sul ritmo e lo stile dei častuški (stornelli) di antica memoria folklorica, ma impostato su temi e motivi autenticamente sovietici. Quotidianità finì allora per coincidere con concetti come ricorrenza, insistenza, assonanza. Creando un’aspettativa sempre nuova, l’artista induceva l’osservatore a richiamare l’elemento alluso per conferire senso, l’unico senso possibile, alla rappresentazione: un sottile processo d’induzione che “automatizzava” il giudizio delle masse. 

Successivamente il rifiuto dello stile neppista, ibrido e contaminato dal gusto tradizionale, porterà all’esautorazione del lubkismo dalla propaganda: era arrivato il 1930, anno che costituisce il reale spartiacque tra il modo di pensare bolscevico-rivoluzionario e quello staliniano.
Si apre una nuova fase del byt (quotidianità) sovietico: d’ora in poi sarà la donna, simbolo della ciclicità regolare e costruttiva, a popolare sempre più di frequente l’immaginario collettivo, soprattutto per quanto riguarda il cavallo di battaglia degli anni ’30 e ’40: la promozione della collettivizzazione e dei kolchoz.  Quasi invariabilmente adornate di un fazzoletto rosso legato dietro la nuca (secondo lo stile delle operaie), a differenza del tradizionale e reazionario nodo sotto il collo, spesso alla guida di un trattore (nuovo simbolo che in questa fase sostituirà la “vecchia falce”), le colcosiane si proponevano non più come la “baba” del passato (termine volgare per indicare una donna incostante), ma come categoria portante delle nuova razza sovietica: la kolchoznica.

Tre sarebbero stati i concetti fondamentali su cui la propaganda avrebbe dovuto ruotare: idejnost’ (senso di responsabilità ideologica), partijnost’ (fedeltà allo spirito del partito) e narodnost’ (spirito nazional-popolare). Tradotto nella pratica: lotta all’analfabetismo, all’alcolismo, al teppismo urbano, alle antiche superstizioni, esaltazione del sacrificio per il progresso industriale e culturale dell’Unione Sovietica (che negli anni bellici verrà considerata più tradizionalmente come Patria).
L’arte staliniana dà avvio ad un suo peculiare processo di “carnevalizzazione” e straniamento: una temporanea e atipica astrazione dal regolare procedere del tempo storico, ma solo come illusione. La cultura popolare del riso, dello sberleffo rivoluzionario, divenne impotente perché messa a confronto con un’autorità stessa ridente, ma dalla risata ideologica. 

Parallelamente venne a definirsi un nuovo stile, denominato “realismo socialista”, canone unitario per ogni tipo d’arte, secondo il quale in nessuna espressione artistica si sarebbe dovuto trovare un contenuto che non fosse chiaramente traducibile in parole. I casi individuali raffigurati nel manifesto vengono declinati sempre al plurale, l’io cede il passo al noi, mentre le figure dei leader (dei verchi, di quegli “altri” ancora guardati con diffidenza dagli strati bassi della popolazione) vengono fatte coincidere con il concetto di voždi naroda (guide del popolo), tradizionalmente e positivamente inteso dai Russi come sinonimo di guida ideale.

Il realismo socialista, nei manifesti d’epoca staliniana, recupera la funzione metafisica dell’icona tradizionale russa: fa vedere l’invisibile attraverso una strategia dell’inganno, dell’utopia solo parzialmente realizzata, ma spacciata come reale. Svuota il soggetto di valore simbolico, a favore dell’annullamento dello sforzo interpretativo.
Con l’avvento di Chruščëv le parole regine diverranno molodëž’ (gioventù) e molodoj, l’aggettivo corrispondente, in sostituzione del “novj” (nuovo) staliniano; si insisterà sul tema della strada come via di progresso e liberazione, appropriandosi conseguentemente di miti giovanili come il volto di Juri Gagarin, l’eroe della porta accanto che orbitò primo fra gli uomini nello spazio, senza però uscire dai binari del “non-luogo” staliniano.
Tema di fondo sarebbe stata la colonizzazione delle nuove terre da rendere agricole (la steppa kazaka-uzbeka e la Siberia), meta ideale dove “l’attuale generazione di cittadini sovietici vivrà nel comunismo” (slogan coniato proprio da Chruščëv).

Ancor peggio accadrà in epoca brežneviana, quando la spinta ideologica diverrà solo formale, chiedendo assenso in pubblico, ma lasciando sostanziale libertà nella sfera privata. Gli slogan non faranno altro che ripetere sino alla nausea i cavalli di battaglia di campagne ormai svuotate di senso, finendo per dirottare l’attenzione delle masse verso forme alternative di espressione artistica e culturale.
Il declino e l’abbandono della carica ideologica affidata ai plakat coincide con le sconvolgenti conseguenze della mostra organizzata al parco Izmajlovskij, il 29 settembre 1974: le tele in esposizione tentarono nuovamente di imporre alla piattezza del realismo il carnevale della forma, avvertito come unica via per canalizzare quella voglia di libertà creativa, abbattimento delle frontiere ed improvvisazione, che la letteratura clandestina del samizdat aveva portato a galla nella società sovietica degli anni Settanta. Le opere furono semplicemente distrutte dai bulldozer del Kgb a poche ore dall’apertura al pubblico della manifestazione.


Emigrati a New York dopo aver assistito alla propria debacle d’intenti nel parco Izamjlovskij, Vitalij Komar e Aleksandr Melamid inaugurarono una forma artistica che avrebbe affossato in breve la cultura del plakat: la sots-art (combinazione di socialismo reale e cultura occidentale).
“Questi artisti furono i primi a vedere il realismo socialista e i mass media sovietici non come mero kitsch, né semplicemente come veicoli di manipolazione burocratica e di propaganda di stato, ma come un vasto campo di stereotipi e miti che avrebbero potuto trasformare in un linguaggio nuovo e contemporaneo, capace di decostruire i miti ufficiali, partendo proprio dalle loro stesse caratteristiche costitutive” (Tupitsyn 1989, p. 61-64).
Alla pop-art americana, giocata sulla moltiplicazione e la storicizzazione di cose materiali e luoghi comuni (i barattoli di minestra di Andy Warhol o le sue immagini di Marylin Monroe), i concettualisti sovietici avrebbero risposto operando analogamente sugli unici “oggetti” di cui la cultura sovietica fosse sovrabbondante: la retorica, gli slogan, le immagini di propaganda. Gli artisti della sots-art risposero all’eroismo sacrificale dell’arte staliniana con una nuova risata carnevalesca. Sfregiarono l’arte ufficiale con colori stridenti e situazioni paradossali, come geniali teppistelli allevati da Majakovskij in persona. Non più credibili, né proponibili, i manifesti propagandistici andarono presto in pensione. 





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