"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

venerdì 2 gennaio 2009

GERMANIA/2

ALL'OMBRA DI WEWELSBURG



L’anello. Sì, proprio l’anello. Quell’anello tondo ed ostinatamente chiuso su se stesso, già evocatore di arcane maledizioni e cavalleresche sventure, fascinoso e perverso, gli apparve d’improvviso l’inizio di tutto: del viaggio in Westfalia, delle rivelazioni proibite, degli incontri allucinati e delle promesse disattese. Se non lo avesse indossato a Berchtesgaden, forse non sarebbe mai giunto davanti alle mura del castello.
Magari il gestore del negozietto bavarese avrebbe finito per etichettarlo come il solito turista che nicchia sulle cartoline, ma non sgancia un centesimo, avrebbe sbuffato indispettito e lui se ne sarebbe andato goffamente. Invece no: qualcosa, durante la breve sosta nel suo piccolo regno di anticaglie, doveva averlo convinto del fatto che Al non fosse uno dei tanti, ma qualcuno di speciale, forse addirittura la guida a lungo invocata, eppur tragicamente inconsapevole del proprio destino. Non pochi, negli anni, erano state le vittime delle bizzarre suggestioni evocate dal suo aspetto insolito, ma mai e poi mai gli era capitato d’imbattersi in una persona dalla fede tanto esuberante: aveva imparato a sorridere di chi lo beffeggiava col nomignolo di Messia; si era divertito ad impersonare ruoli e figure d’altri tempi cui somigliava; aveva solennemente giurato di non tagliare per alcun motivo i lunghi e biondi capelli, al pari della barba dorata, pur sapendo che in tal modo sarebbe stato privato per sempre della grigia quiete conformista. “Avvicinati un po’, giovanotto. Avvicinati…”.
La voce del commerciante aveva tagliato il silenzio con l’inquietante garbatezza di un sibilo peccatore. Da dietro il bancone lo stava osservando affascinato, con gli occhi liquidi e le mani nervose, tormentandosi le labbra senza alcuna ragione. Al lo aveva sbirciato perplesso, poiché temeva che l’uomo volesse rifilargli qualche patacca bellica dal prezzo esorbitante. Solo ora, ripensandoci a mente lucida, si era accorto che – per l’imbarazzo – aveva continuato a girare l’anello attorno all’anulare.



Difficile credere che gli occhi aguzzi dell’antiquario non avessero colto quell’ambiguo vizio, indice del disagio d’essersi fregiato di un cimelio su cui incombeva una fama sinistra. Non a caso lo teneva sempre nascosto, indossandolo esclusivamente quando i lunghi viaggi lo conducevano in luoghi insidiosi, ove non sarebbe stato sciocco porsi sotto l’influsso di qualche nume tutelare. Sempre che questi esistesse davvero. “Vieni pure qui dietro – continuò ad invitarlo amorevolmente - voglio mostrarti qualcosa di davvero speciale”. Si schiuse una porta defilata che dava all’interno di una buia stanza. Il vecchio fece strada, accendendo una lampada a petrolio mezzo arrugginita. Piano piano la corona di luce iniziò a fendere l’oscurità, finché sul fondo della cantina apparve un’uniforme nera adattata ad un manichino senza testa. Pareva nuova di zecca, coi suoi lucenti stivali e i lustrini a rune apposti sugli orli. A causa degli spifferi che lambiccavano la fiammella della lampada, l’immagine sullo sfondo tendeva a deformarsi, dando talvolta l’impressione di muoversi su di un corpo vuoto.



“E allora…dimmi. Che te ne pare? Non è meravigliosa?”. Di nuovo nei suoi occhi scintillava quella luce malata che Al aveva colto al proprio ingresso nel negozio. Se non fosse stato per le rughe marcate, la sua espressione sarebbe apparsa identica a quella di un bambino ad un passo dal realizzare il proprio sogno. Non ebbe il coraggio di replicare alcunché, ma assentì solo col capo, senza staccare gli occhi dall’uniforme. Il vecchio ridacchiò compiaciuto, sfregandosi le mani. “Lo so cosa vuoi…ho capito tutto, io. Quando s’ingrigiscono i capelli, l’intuito si colora. Avanti, che aspetti? Non vedi che è proprio della tua taglia?”. A quel punto sarebbe stato sciocco tirarsi indietro. Varcando la soglia di quella stanza interdetta, in qualche modo aveva accettato di sottostare alle aspettative del vecchio. Si svestì meccanicamente, avvertendo forti brividi risalirgli dalla punta dei piedi. La stanza era umida, ma non odorava di muffa come ci si sarebbe aspettati. Piuttosto di zolfo. Sentì i pantaloni prendere forma sulle gambe slanciate, mentre la giacca calzava a meraviglia, quasi fosse stata cucita appositamente per lui da un sarto. Il contatto nudo con la stoffa accrebbe il suo senso di disagio, già risvegliato dal gelido sguardo esaminatore che il vecchio faceva scorrere sul suo corpo, ma gradualmente avvertì anche affiorare dal profondo una forza arcana. Onda calda che tramutò presto in una vera e propria sensazione di benessere, così inutilmente agognata vagando senza meta per campagne disabitate. “Per gli dei del Walhalla! – esclamò il vecchio esterrefatto – questo sì che è uno spettacolo! Non c’è dubbio: è tua…è semplicemente tua…”. Il cuore balzò in gola al ragazzo. Doveva aspettarselo. Dietro ogni lusinga, si celava sempre un’insidia. “Ha ragione. E’ bellissima. Ma non credo di potermela permettere…”. Permettere? Al si stupì di aver affermato qualcosa di simile, visto che non aveva alcun interesse a comprare un’uniforme anonima. Eppure, inconsciamente, quel pensiero lo affascinava. Per un attimo si era scorto nell’ovale dello specchio appeso in cantina e l’immagine riflessa lo aveva favorevolmente sorpreso: quale fierezza donava al suo portamento! Quale nobile autorità emanava dalle sue pieghe, entro le quali si stagliava come un antico cavaliere votato al più alto dei sacrifici. Era vero. Quell’uniforme gli calzava a pennello e cercava un nome da lungo, forse troppo tempo. Il commerciante scosse la testa bonariamente. “Non devi pagare. Ti spetta di diritto…ma dimmi, giovane: da dove vieni?” “Sono senza dove. Un menestrello potrebbe dire che vengo dai prati ove lacrima la rugiada e dai boschi dove respira la nebbia…” Per la terza volta nello sguardo dell’uomo si accese una fiamma ardente. Si guardò intorno sorpreso, quasi non credesse a quanto era solito avere sotto gli occhi, finché sospirò con vetusta consapevolezza. “Sei un wandervogel, non è così? Tu forse non puoi saperlo, ma da sessant’anni quell’uniforme chiedeva di te solo, di un uomo di luce…”. Senza perdere altro tempo, si mise ad imballare i capi di cui Al aveva voluto presto sbarazzarsi e dai quali traspirava un’aura insana. “Ed ora, solo una parola: Wewelsburg! Sì, Wewelsburg! Wewelsburg! Siamo di nuovo in marcia…”. Rapito da un’improvvisa euforia, il vecchio si trascinò grottescamente verso il fonografo che teneva accanto alla cassa. Vi posizionò sopra un vinile graffiato e diede qualche giro di manovella. In breve il negoziò si riempì di cupi suoni marziali, lasciando che i versi tossicchiati dal corno si confondessero con la voce aspra dell’uomo. C’era qualcosa d’inquietante nel manifesto contrasto fra il suo volto entusiasta e il funereo incedere della marcia in sottofondo. Cantava a squarciagola tenendosi dritto sulla schiena, nonostante dovesse aver passato gli ottanta da un pezzo. Coi capelli radi ed arruffati, le orbite al cielo ed un ghigno mefistofelico stampato sulle labbra, pareva ormai un’altra persona. Impressionato dallo squallido spettacolo, Al si precipitò per strada avendo ancora nelle orecchie i versi del vecchio: “Vittoria nella sventura, mostrate il vostro coraggio! Chi esita è già perduto! Dio è la lotta e la lotta il nostro sangue, per questo siamo nati. Batti, tamburo, allegramente, come le bandiere già schioccano!…”. Fece in tempo a scorgere ancora per qualche secondo l’uomo che ciondolava la testa ad ogni giro di manopola, per quanto i suoi occhi fossero ormai persi. Serrati dietro palpebre stanche, all’inseguimento di spettri risvegliati dopo lungo sonno. Allungò il passo cercando di scacciare dalla mente quell’episodio, ma ancor adesso, a distanza di mesi, avvertiva la sua ombra incombere alle spalle. Non era stato forse il suo enigmatico invito a spingerlo sotto le mura del famigerato castello? Non era stato forse il riconoscimento del suo anello ad aver dispiegato un tortuoso cammino dal quale pareva ormai impossibile fare ritorno? Non era più di tempo di domande. Sulla collina a fronte, pochi chilometri fuori Paderborn, si ergeva possente la fortezza di Wewelsburg. Già dalla sua strana forma a freccia, orientata oscuramente verso nord, intuì che quel luogo dovesse essere un segno di rimando verso orizzonti ulteriori, per quanto ignorasse ancora l’esatta destinazione. Non sapeva neppure se il complesso fosse aperto al pubblico o meno. Ogniqualvolta rivolgeva domande su di esso, la gente cambiava espressione ed alzava frettolosamente le spalle. Un pigro sole estivo stava ormai tramontando dietro gli steli d’erba che inverdivano dolcemente la campagna, forse desideroso di abbeverarsi alle acque di un ruscello fluttuante fra le sue dune. Avrebbe dovuto trascorrere la notte in quella località, ma oltre ad amene fattorie, nel piccolo villaggio ai piedi del maniero si imbatté soltanto in una locanda fumosa. “Buonasera. Affittate per caso stanze, qui?” Sullo sgabello vicino al bancone sedevano due rubicondi bevitori di birra, mentre l’oste era intento a sciacquare i piatti di una cena alquanto morigerata. “Benvenuto – rispose quest’ultimo facendo un cenno col capo, senza tuttavia interrompere la sua attività – se all’ostello non hanno più posti, possiamo rimediarle una stanza. Ma badi, non è prassi comune. Il fatto è che gironzolare qui, a quest’ora, può riservare brutte sorprese”. Rinfrancato dall’inaspettata cortesia, Al si accomodò accanto ai due bevitori. “Di che ostello parla? Non sapevo ce ne fosse uno in zona. Comunque non credo si aggirino orsi voraci in questa campagna…” L’oste sorrise benevolo, lanciandogli un’occhiata d’intesa. “Dopo la guerra, parte del castello è stato destinato all’accoglienza dei viaggiatori. Ma non importa: lei mi piace, ha un volto simpatico. Assomiglia un po’ a quegli esploratori barbuti che frequentavano Wewelsburg ai tempi del grande restauro, non certo ai perdigiorno d’oggi. In genere sono stralunati o seguaci d’eccentriche filosofie ad arrivare qui. Ma guardi lei stesso: sulle pareti abbiamo qualche foto d’epoca…”. Al si avvicinò al fondo della sala, rivestita in legno, e prese a scorrere le immagini affisse. Effettivamente i volti delle persone ritratte avevano qualcosa di familiare. Al di là di alcuni uomini in uniforme, si riconoscevano professori o studiosi, ma anche avventurieri dall’aspetto un po’ trasandato. Fu colpito dal fatto che gli ufficiali fossero sempre in numero di dodici. “Ha ragione. C’è uno che mi somiglia davvero – osservò ridacchiando - chissà che avrebbe pensato un vecchietto che ho conosciuto a Berchtesgaden…”. “E’ stato a Berchtesgaden? Parla forse di un signore che gestisce un negozio di antichità vicino alla chiesa?”. L’oste pronunciò quelle parole, assumendo un’espressione più prudente. “Ma sì! Lei mi legge nella mente! Vi conoscete, forse?” “Beh…se parliamo della stessa persona, credo si tratti di un amico stretto di mio padre. Hanno combattuto assieme in guerra. E’ stato lui a consigliarle di venire qui?” Inspiegabilmente Al si sentì percorso da un brivido molto simile a quello provato durante il primo incontro. Pareva che i suoi passi stessero davvero seguendo un percorso tracciato da tempo. “Già. Mi ha… - si fermò un attimo, incerto se confidare o meno all’oste l’episodio dell’uniforme - …mi ha mostrato una divisa militare. Quando ha visto che mi calzava a pennello è come impazzito dalla gioia. Manco avessi estratto la spada di Excalibur! E’ stato allora che ha fatto il nome del castello…ma me ne sono andato, prima che potesse spiegarmi il perché”. L’oste batté le mani in direzione dei due bevitori con aria un po’ ansiosa. Disse loro ch’era ggiunta l’ora di chiudere e di tornare a casa. Quelli bofonchiarono qualcosa senza troppa convinzione, uscendo a tentoni dalla sala. “Allora venga, la prego. Mi segua al piano superiore. L’aiuterò a capire…”. S’incamminò verso la scala gettando un’occhiata alle spalle, quasi per premunirsi che il locale fosse davvero vuoto. S’avvicinò quindi ad alcune panche lì raccolte, sollevando festoni e corone di vischio apposti a mo’ di decorazioni. Improvvisamente vennero alla luce segni runici incisi un po’ dappertutto, dalle porte alle balaustre di protezione. “Loro venivano qui spesso ai tempi. Intendo quelli del castello. S’intrattenevano sino a notte fonda per parlare di curiose spedizioni in Oriente. Cercavano l’accesso a qualcosa, ma non ricordo bene. Io ero un bambino e mio padre non ha mai voluto parlare troppo di questi episodi. Però ogni volta che lo facevano, assumevano un’aria davvero solenne. Come se si trattasse di qualcosa d’estremamente cruciale, decisivo per le sorti dell’umanità…lei ama sicuramente viaggiare, non è vero?”. Al rimase piuttosto perplesso di fronte alle dichiarazioni dell’oste. Il locale aveva le tipiche sembianze di una tranquilla stübe, impreziosita dalla presenza di una stufa a ceramica verde. Proprio non riusciva ad immaginarsi cupe cospirazioni o solenni giuramenti fra le sue pareti, quanto allegre compagnie di bevitori che, tenendosi a braccetto, cantavano a squarciagola qualche burbero motivo importato dal sud, sulla falsa riga di Anton aus Tirol o die Rose von Woerthersee. “Crede che nel castello possa trovare qualcosa in merito a queste spedizioni?” L’uomo s’incupì improvvisamente. “Niente di niente. E’ bruciato tutto. Quando fu chiaro che le truppe straniere sarebbero riuscite a penetrare all’interno, venne dato ordine di distruggere ogni documento lì custodito. Anni di studi condotti nelle parti più recondite del mondo, alla ricerca dei grandi tesori: solo fumo e cenere, ragazzo mio…”. Accorgendosi del moto di stizza del giovane, l’oste cercò di non scoraggiarlo. “Ma non devi preoccuparti. Non è di quel tipo d’informazioni che tu hai bisogno. Il castello parla da sé; le sue pareti, le sue sale, la sua stessa architettura riusciranno a dirti molto più di quanto è andato perduto. Devi…devi modularti sulle sue frequenze…non riesco a trovare un’espressione meglio adeguata”. Era strano. Quell’uomo, esattamente come il venditore d’anticaglie a Berchtesgaden, aveva qualcosa di ambiguo e sfuggente. Diceva e nascondeva al tempo stesso, quasi temesse di oltrepassare un limite inviolabile, dal quale tuttavia era sommessamente attratto. Passeggiò perplesso nella stanza, avvicinandosi ad una stretta finestra che s’apriva proprio sull’antica fortezza. “Vista da qui, sembra una costruzione piuttosto moderna…” “Non lasciarti ingannare – obiettò l’oste, con tono roco e improvvisamente confidenziale – non fermarti in superficie. I primi insediamenti risalgono probabilmente al X o all’XI secolo, quando i Germani furono costretti a creare un blocco difensivo sulla collina a causa delle invasioni degli Unni. La sua edificazione costò però grandi sacrifici ai locali: nel 1124 il conte Friedrich von Arnsberg spinse i suoi sottoposti a lavorare in condizioni durissime, quasi disumane, tant’è che appena egli morì, gli stessi si ribellarono e distrussero quel simbolo di odio e prepotenza”. Nonostante tutto la costruzione venne ripresa negli anni successivi imponendo angherie ancor peggiori, ma accentuando in particolare il divario fra i nobili e i contadini del posto. Durante la Guerra dei Trent’anni, di fronte all’incalzare delle scorrerie militari, gli abitanti del villaggio cercarono riparo proprio nel castello, vedendosi però sbarrato l’accesso da una frase sprezzante incisa all’entrata: “Viele moechten gern hinein; aber das schaften sie nicht!”. Come a ribadire: voi non ne siete degni. Il castello venne più volte rimaneggiato e migliorato nelle sue difese, finché a cavallo fra il 1604 e il 1607 assunse l’attuale forma a lancia, voluta dai Fuerstbischof della famiglia Fuesternberg, titolare dello stabile per oltre due secoli. Quindi una lenta agonia sino al suo rilevamento da parte di Heinrich Himmler nel 1934, che lo trasformò nel centro iniziatico dell’Ordine Nero. “Quando crede possa entrare nel castello?”. La domanda del giovane aleggiò nel silenzio. Per un attimo pensò di essere rimasto solo nella stanza, cosicché si volse di scatto per cercare di capire dove fosse finito il suo ospite. Lo ritrovò però seduto alle sue spalle, intento a scrutarlo minuziosamente. I suoi occhi apparivano tanto indagatori, da metterlo quasi in soggezione. “Dipende. Dipende da cosa intendi fare nel castello. Puoi entrarci come turista domattina e, senza dubbio, qualche paffuta guida ti mostrerà i reperti etnografici di un piccolo museo lì ospitato, oppure ti farà fare amicizia con qualche tuo coetaneo nell’ostello accanto. Oppure…”. Lasciò cadere la frase nel vuoto. Un’ansia immotivata si dibatteva nel suo petto, facendo capolino nel tamburellare nervoso delle dita sulle cosce tornite. “Oppure?”. Al lo guardò interrogativo, ma anche con una punta di provocazione. “Oppure…puoi entrare stanotte. Sai, certi posti cambiano completamente volto al calar del sole. Rivelano una seconda identità. Anzi, ti suggerirei di entrarci sul far dell’alba, quando potrai apprezzare la potenza suggestiva della luce fra le sue pareti…”. Al capì che dietro quella proposta, si celava un’iniziativa ai limiti della legalità. Quale sorvegliante sarebbe rimasto in servizio, attendendo improbabili visitatori crepuscolari? Chi avrebbe mai lasciato aperti locali e corridoi durante la notte, quando fuori gironzolavano “stralunati” e seguaci di strane sette? L’oste sapeva indubbiamente molto più di quanto volesse dare ad intendere. Ma proprio per venire a capo delle sue ombre, sarebbe stato necessario assecondare una volta ancora le stranezze sottopostegli. “D’accordo. Io sono pronto…”. Lui assentì soddisfatto, come se in fondo si fosse aspettato solo ed unicamente quella risposta. “Ma non mi chiede neppure perché voglia entrarci?” “Non mi serve – rispose candidamente – a me basta sapere che lo farai. Poi tutto verrà da sé…”. Si alzò pesantemente, come se sulle gambe dovesse reggere l’intera stanchezza del giorno, e allungando il braccio verso un corridoietto sul fondo della sala, intimò di seguirlo oltre. Senza nulla replicare, Al si accodò alle spalle, non lesinando occhiate furtive alle pareti, dove fra foto seppiate e antiche simbologie, un mondo sommerso stava gradualmente tornando a galla. “Ti consiglio di riposare un po’, ora. Sarà una visita impegnativa, sia sotto il profilo fisico che psicologico. Qui c’è una stanza con un letto doppio: la teniamo per i nostri ospiti più cari. Rilassati pure, fatti una doccia e dormi. Verrò io a chiamarti quando sarà il momento. Ci sposteremo a piedi”. Fermo sulla soglia, l’oste continuava a guardarlo con un misto di benevolenza e timore. “Beh…non posso che ringraziarla. Effettivamente sono un po’ stanco. Buonanotte, allora”. Chinò rispettosamente il capo e, con un movimento felino, l’uomo chiuse la porta senza fare alcun rumore. Al udì i passi allontanarsi nel buio del corridoio, lasciandolo presto immerso in un silenzio irreale. Dalla finestrella penetrava una brezza frizzante, mentre nel cielo cominciavano ad apparire le prime stelle. Si sedette sulla seggiola posta accanto ad un tavolino intarsiato, su cui era stata riposta una brocca colma di succo di mele. Bevve lentamente, ad occhi chiusi, sentendosi piano piano sprofondare nella quiete circostante. Quindi spalancò le palpebre come folgorato da un’intuizione fatale. “Sì, non si scandalizzerà di certo…”. Accesa una candela, giusto per non rovinare l’atmosfera rarefatta della locanda, si mise a sfilare alcuni capi dal suo zaino, finché ritrovò per le mani l’uniforme consegnatagli a Berchtesgaden. La dispiegò accuratamente, appendendola sugli ometti dell’armadio. Quindi si spogliò con noncuranza, guardandosi attorno incuriosito. Sopra il letto era appeso un ritratto dallo sguardo spiritato. Si avvicinò un poco per leggere la targhetta d’oro incisa in lettere gotiche. “Karl Maria Wiligut... – ripeté sommessamente - …Wiligut…ma sì, ora ricordo! Lo chiamavano il Rasputin di Himmler…”. Più che foto d’epoca, quelle cornici sembravano perpetuare il culto di personaggi ferocemente condannati dalla storia. Nato nel 1866 a Vienna, Weisthor – così si fece chiamare più avanti l’inquietante austriaco – era stato un brillante militare ai tempi degli Asburgo. Dopo aver preso contatto con gli ambienti ariosofi dell’antica capitale imperiale, iniziò però a manifestare segni di squilibrio psichico ed autopersecuzione, finendo per essere ricoverato in un manicomio a Salisburgo. Ci rimase per tre anni, senza che questa sospetta separazione dal mondo dei benpensanti incrinasse la sua passione per gli studi mistici, legati allo yoga, alle rune e all’archeologia germanica. Titoli di merito che, più tardi, gli guadagnarono l’ammirazione di Himmler assoldandolo come guida spirituale dell’Ordine Nero a Wewelsburg. I pensieri del giovane s’involarono per via di un timido bussare alla porta. Guardò di soppiatto l’orologio: erano le 10 appena passate. Troppo presto per recarsi al castello. Si avvicinò dunque all’uscio, con fare circospetto, ma alle sue ripetute domande nessuno rispose. Infastidito, girò allora la chiave nella serratura. “Ma insomma, chi è?”.

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