"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

domenica 23 dicembre 2007

OLTREOCEANO


Florianopolis - Pare di vederla ancora. Laggiù, con i tricolori al vento solcati dal Regio Emblema, gli anziani genitori in spesse vesti di fustagno, le mani piene di calli e col fazzoletto agli occhi; e poi le guardie del porto, dai volti un poco risentiti, un poco speranzosi. Ma è già lontana. La Madre Patria. Lontanissima, al di là di un’oceano che potrebbe imporre mesi di traversata, qualora il destino volesse consegnarci di nuovo alla terrazza di un transaltantico dal fiato bolso, in partenza da Genova o da Hamburg, da qualunque altro porto conduca lontano dall’Europa Vecchia e Disillusa.



Eppur sempre, la cara e vecchia Europa. Non è difficile scivolare fra le rughe del tempo, risalire ai quei giorni seppiati del 1875, quando il clamore dell’Unità si era ormai franto e le giubbe rosse sbiadivano in cassepanche di noce ammaccato. Basta osservare il volto di un oriundo d’oggi, rapito e commosso come un bimbo di fronte al regalo più desiderato: divora simulacri d’Italia, senza accorgersi di come non siano altro, fuorché mere immagini di patinata confezione, astuto cinema di un paese sempre più narcisista ma coi buchi nelle calze, accortamente imbellettato, eppur duro e indifferente quanto una maschera che aleggia nel carnevale veneziano. Per l’oriundo è sacrosanta verità, idea di una perfezione intangibile e dagli imbarazzanti risvolti feticisti. Il ricordo si è sostituito alla memoria. Peccato tanta cieca dedizione non sia generosamente contraccambiata.



Dei 180 pionieri sardi che, primi fra tutti, giunsero nel 1836 sulle rive del fiume Tijucas, fondando la “Nova Italia”, da tempo le cronache hanno smesso di far parola. Infastidiva allora. Risveglia gretta vergogna oggi, dovendo ammettere che noi pure fummo immigranti dai volti sporchi, gli occhi stralunati e le dita leste. Veneti soprattutto, ma anche Lombardi e Friulani, gente che sapeva come coltivare il grano, che faceva della viticoltura un’arte eccelsa e i pregiudizi ammorbidiva con la malleabilità dei propri formaggi. Nessuno osò dirlo; ma eravamo la seconda scelta, i bianchi di categoria “B”, chiamati a schiarire e nobilitare i lineamenti di quei complessati meticci che i tedeschi aristocraticamente sprezzarono, ricevuto d’innanzi l’invito ad insediarsi nelle verdeggianti valli dell’Itajaì.




In realtà nel 1828 avevano già messo piede a Saõ Pedro d’Alcântara, ma si sarebbero dovuti attendere due decenni ancora per veder fiorire le cittadine di Blumenau, Pomerade e Joinville, rinomate non solo per le pittoresche case a graticcio o per i buffi Lederhosen, ma anche e soprattutto per l’organizzazione di un’Oktoberfest seconda solo al leggendario carnevale di Rio. Diciassette giorni trascorsi ad inseguire il folkloristico “choppwagen”, il carro della birra alla spina, o ad addentare l’Ente mit Rot Kohl, l’anatra al cavolo rosso.



Venne poi il turno dei polacchi, dei russi, degli ucraini e degli austriaci, di altri ed altri ancora: arrivavano da ogni parte d’Europa, in cerca di fortuna e riscatto, ma come avrebbe detto l’imparziale Giovanni Verga, primi furono i portoghesi. A loro, e in particolare agli abitanti troppo fertili delle Azzorre e di Madeira, spetta infatti la paternità dei villaggi colonici costruiti sulle spalle degli sfortunati indigeni; quei circa 6 milioni di Xocleng, Guaranì e Kaingang, di cui oggi restano appena la spoglie di 10mila anime, e non più di 30 comunità sapientemente occultate nell’umida mata atlantica. Sorte opposta ai pittogrammi dei loro vetusti avi, che oltre 10mila anni fa affidarono a sperdute rocce le loro sacre zoomachie e le geometrie distorte di oscuri riti sciamanici, senza immaginare dovessero poi finire sotto lo sguardo impudente dei visitatori di Praia do Santinho o dos Ingleses.



Piano piano ognuno ha saputo ritagliarsi il suo spazio. Quasi sempre senza infierire, talvolta aggrappandosi ad un orgoglio che mal s’addice ad una nazione dai mille rizomi. Basti pensare a cosa sia diventata la scuola di teatro “Bolshoj” di Joinville, inaugurata solo nel 2000 come unico distaccamento della più rinomata istituzione di danza del mondo, ma in grado di plasmare in otto anni di corso oltre 300 professionisti delle due punte. Ragazzini sottratti alla strada e all’indigenza, in omaggio alla tradizione che i moscoviti avviarono nell’ormai lontano 1773, pronti a volteggiare in un festival di ciclico ritorno, ogni anno in calendario alla metà di luglio.





Santa Catarina è così. Trasuda sacrificio, nostalgia ed eroismo in ogni lembo del suo territorio. Non sarebbe tanto rosso il vino del Contestado, se non fosse pregno del sangue versato dai caboclo di Monge José Maria, in lotta contro le pretese del consumo e la maschera yankee della Brazil Railway Company.



Per quattro anni opposero resisenza, 20mila vittime pagarono: la terra venne offesa e mortificata, la ferrovia congiunse le magnifiche e progressive sorti di San Paolo e Rio Grande do Sul.
Nulla ha invece scalfitto gli imperdibili gioielli coloniali della costa, lungo cui brillano Saõ Francisco Do Sul e Laguna.



All’estremo porto settentrionale approdò nel 1504 il navigatore francese Binot Palmier de Gonneville, dando origine a quel che sarebbe poi diventato il terzo più antico insediamento di tutto il Brasile, nonché un tesoro sorprendentemente intatto dell’Unesco: sovrastato dalla fortezza Marechal Luz, conserva oltre 150 palazzi d’inestimabile valore, su cui svetta il candido duomo di Nossa Senhora. Risalente al 1699, è un curioso pastiche di malta a base di sabbia, calce, conchiglie ed olio di balena. Lungo i litorali catarinensi sono infatti soliti tornare ogni anno a riprodursi capodogli giganti, avendo ormai imparato a fidarsi della benevolenza dei pescatori locali.



Il mare ne rappresenta d’altra parte l’anima più profonda, a tal punto che in città trova accoglienza un museo nazionale ad esso interamente dedicato e alle sue più ingegnose imbarcazioni, unico in tutto il Brasile. Nessuna sorpresa se Amyr Klink, l’eroe della traversata dell’Antartide, abbia allora scelto di esporre proprio qui la sua gloriosa barca Paraty.



Più a sud, Laguna celebra invece il volto romantico dell’Ottocento rivoluzionario. La mano sinistra protesa al cielo terso, il fucile nella destra e i suoi meravigliosi capelli corvini sciolti al vento: Anita Garibaldi domina la piazza dell’ultima cittadina al confine col Rio Grande do Sul, dà il nome al suo museo più insigne, si fa casa che dispensa ospitalità attraverso il giallo canarino delle pareti ed il blu delle finestre.



Uno spartiacque fra epoche e mondi, antica e già incredibilmente moderna, cuore uruguegno ed anima tricolore, Anita non poteva che camminare sulla linea tracciata dal Trattato di Tordesillas del 1494, primo solco che faceva del mondo una metà, fetta portoghese, fetta spagnola. E’ amore a prima vista, indimenticabile voto all’unità spezzata e al sacrificio per l’altro, promessa gravida e speranza dell’ultimo appello. Anita è ponte di luce sui sogni di Florianopolis, la regina delle 500 spiagge...



..ma ancorché emblema della Madre Patria, Anita è soprattutto la madre: magica parola che per prima sgorga sulle nostre labbra e per ultima ci abbadona.

1 commento:

matilde ha detto...

Uomo libero, amerai sempre il mare! Il mare è il tuo specchio: contempli la tua anima nel volgersi infinito dell'onda che rotola e il tuo spirito è un abisso altrettanto amaro.(C.B.)