"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

domenica 9 settembre 2007

DISPACCI INDOCINESI (UFFICIOSI)

Viene qui riportata la corrispondenza di viaggio dal sud-est asiatico ispirata alla penna di Michael Herr, insuperato cronista della criminale guerra yankee in Vietnam.

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DISPACCIO DA BANGKOK - 24.07.07, h. 13.54

Saluti, compagni!

Non ho capito ancora se mi abbiano teso una subdola e crassa trappola capitalista, ma sono atterrato nel Paese dello shopping sfrenato senza uno straccio d'indumento! A quanto pare tutti i bagagli del volo proveniente da Il Cairo sono finiti in groppa a un cammello, lasciandoci addosso solo litri di sudore e un penetrante odore di mandorle fritte.

Insieme a una comitiva di sventurati tedeschi - ciascuno nella medesima situazione del sottoscritto - e dopo esser stato onorato di un mazzetto da 1.500 bath per porre pezza all'inconveniente, ho riparato dunque in una guesthouse d'emergenza suggeritaci dal personale aeroportuale  (stando agli ultimi aggiornamenti, i bagagli dovrebbero pero' arrivare entro stanotte, o nelle prime ore di domattina).

Nella spasmodica attesa, ho iniziato pure a familiarizzare con la brulicante Bangkok, dal momento che la nostra base d'esplorazione si trova proprio nel cuore pulsante della città, ovvero la via Khao Sao nel quartiere backpacker di Banglanphu. Miriadi di bancarelle che vendono coloratissime magliette a prezzi stracciati, amuleti azzurri, raviolini alle verdure, kimoni di seta e distillati d'oppio, attraverso le quali sudaticci turisti in bermuda danno sfogo ai loro più torbidi desideri compulsivi. C'é chi lo fa per strada e chi, magari, nella stanza appena alle spalle della guesthouse, dove troneggiano cartelli che impongono un supplemento di 200 bath a quanti disturbano troppo portandosi a letto una go-go girl.

Fortunatamente il quartiere é anche a due passi dallo scintillante palazzo reale della dinastia siamese, dove troneggiano torri asserpentate color giada e tetti più curvi di un arco da caccia. Per ora ne ho avuto solo un assaggio avvolto nella delicata foschia rosa del tramonto, in attesa di precipitarmi lì domattina all'alba, per scansare le orde digitalizzate e godere delle migliori condizioni di luce. Dal momento che per ottenere un visto cambogiano occorre appena un giorno lavorativo, quasi per certo tornerò a breve sulle rotaie, diretto alle porte dell'inferno polpotiano, verso il più remoto santuario khmer.

Non mi resta che incrociare le dita e mandarvi un caloroso saluto.

Albert Herr



DISPACCIO DA BANGKOK/2 - 25.07.07, h. 13.32

...anziche' incrociare le dita, alla fine ho optato per una scelta molto piu' thai: ieri sera mi sono addentrato nell'esoterico mercatino degli amuleti, giusto alle spalle del Grand Palace reale, in cerca di fortuna e gloria. Fra simulacri di spiritelli porcelli ed elefantini fallici, evocazioni di tatuaggi taumaturgici e magiche pozioni a base di veleni serpidi, devo essermi ingraziato davvero un po' di benevolenza divina, visto che al rientro nella guesthouse ho ritrovato il mio zaino pellegrino con immensa gioia. Dunque si comincia per davvero! 

A parte qualche vodka di troppo, sorbita durante una serie di partite a biliardo con i commilitoni tedeschi (decisamente distratti da sculettanti soubrette desiderose di mettersi in mostra con gli stranieri), questa mattina ho preceduto l'alzarsi del sole per correre alla settecentesca reggia siamese.

Spettacolo strabiliante: guardiani giganti dai volti demoniaci presidiavano i quattro ingressi al sito, dove un tripudio di oro, pietre preziose e rosso avvolgente hanno piano piano preso forma nei templi votivi attorno al Buddha di Smeraldo. Benche' ogni scultura qui presente sia degna di iperbole, dalle apsara danzanti alle fenici pronte a spiccare il volo, indubbiamente tutti gli occhi vanno alla minuscola e panciuta copia dell'impassibile saggio: a mo' del mannequine piss (si scrivera' cosi'?) di Bruxelles, cambia infatti vestito d'estate, durante la stagione delle piogge e d'inverno, si' da suggestionare meglio i fedeli cui viene presentato nei suoi solenni viaggi thailandesi.

Si dice che uno dei poteri dei saddhu indiani sia quello di mutare dimensioni agli occhi dei profani: beh, Siddartha ci riesce benissimo! A pochi metri dall'antica reggia, si trova il Wat Phro, ossia il tempio che custodisce il piu' grande Buddha sdraiato di tutto il Paese. Ben 46 metri d'oro addormentanti in una pagoda profumata di teak, culminanti in due piedi enormi intagliati nella madre perla! Senza parole.

E' quindi giunto il battesimo del primo monsone, che ha posticipato a domani la visita dell'opposta sponda del fiume, dove sorge l'Arun Wat, altro magnifico tempio in stile khmer-indiano. In compenso ha ripulito con autentica pioggia oriental-asiatica la mefitica mantellina sopravvissuta al viaggio indiano della scorsa estate: la reazione avuta con le polveri di curry e i fanghi delle fogne di Chinnai ha dato vita ad un'arma batteriologica temuta pure da Al Qaeda. Che sia stata la violenza degli olezzi o l'ira impietosa delle piogge, in pochi minuti si e' aperto il vuoto in città.

Il mio treno per Si Sa Ket parte invece domani sera, per cui avro' quasi una giornata ancora da godere nella capitale. Stasera non potrà mancare un'incursione nel famigerato Patpong, ovvero il quartiere della perdizione bangkokiano assurto a gloria durante la guerra del Vietnam, benché oggi viva più di rendita che di trasgressione. Forse incontrerò qualche reduce pronto a raccontarmi della sua Saigon, o semplicemente finirò per perdermi in qualche oppieria a sognare di un mondo che non esiste più.

Perche' dietro ogni viaggio, c'e' sempre un cuore di tenebra che batte...

Un inchino,
Albert Herr



DISPACCIO DALLA STAZIONE DI HUALANGONG - 26.07.07, h. 11.43

...Cowboy soldier ha fatto davvero una brutta fine. Forse ancor peggiore di quella da cui era scampato in Vietnam. Se fosse caduto la', quanto meno, la piastrina che si portava al collo lo avrebbe ricordato ai posteri. Il quartiere di Bangkok che porta il suo nick si e' invece dimenticato completamente di lui, fratello nero con alle spalle incubi al napalm, odiosi insulti da caserma, ma nonostante tutto primo pioniere americano capace di fare del vizio un business, verso la meta' dei 70's. C'e' solo un cartellone luminescente al neon che segnala l'ingresso al torbido ventre della capitale,il cosiddetto "Soi Cowboy"; per il resto un peep-show dietro l'altro, tavolini per strada con compiacenti go-go girls a pubblicizzare cocktail d'ambigua fama (La lingua del dragone, il nettare dell'orchidea, patpong fire...), qualche magnaccia pronto a spaccarti l'obiettivo della macchina fotografia, con la stessa facilita' con cui puo' procurarti la ragazza o il ragazzo (o comunque una via di mezzo) dei tuoi sogni.

Delle vecchie reclute a stelle e strisce neppure l'ombra, se non qualche imbolsito texano dalla fronte sudaticcia che si diverte ad infilare le mani sotto le mini delle bimbe thai, stuoli d'italiani incapaci di sostenere da soli almeno un saluto in inglese alle malcapitate, qualche tedesco piu' preoccupato del portafoglio che dell'incredibile ventaglio delle prestazioni. L'unica nota spassosa sono le turiste australiane o inglesi che ballano mezze nude per strada, facendo vegognare persino le loro prossime compagne di letto. Insomma, tolto qualche omaggio live a Jimi Hendrix o ai Rolling Stones di Jumping Jack Flash - colonna sonora stereotipata per spogliarelli pruriginosi - quell'antica atmosfera dannata che si respirava fra Patpong e il Nana Entertainment Plaza e' scomparsa del tutto, lasciando piuttosto ai mutilati di Soi Sukhumivit il compito di lacerare l'anima,mentre strisciano sulle braccia rotti in un lamento inconsolabile. Tocca alle vecchiette nei vestiti neri di Chiang Mai muovere un gesto di pieta', quando riescono a sorprenderti facendo gracidare raganelle di legno, grazie ad un bastoncino passato sulla loro cresta intagliata. E' merito di qualche Lon, Nol o come diavolo mai si chiameranno queste studentesse spiantate, se si riesce a sollevare il velo sulla Bangkok senza sorriso, fatta di disperazione e debolezze, di sogni infranti e colpe recidive.

Dopo lo squallore di ieri notte, assistere stamattina all'ordinazione di un giovane monaco mendicante e' quasi parso una salubre ventata di serenita'. Rasato a zero, umile nella sua tunica arancione, tormentato dai dolori lancinanti inflittigli dal restare suduto sulle ginocchia per lunghi intervalli, alla fine e' riuscito a guadagnarsi la benedizione del loto, ovvero un'aspersione di acqua santa attraverso i petali del fiore della saggezza buddhista.
I fratelli maggiori hanno pazientato affinche' la ripetizione dei suoi mantra entrasse in piena sincronia con i propri, costringendolo a sillabarli sino all'ossessione, incuranti di quanti steli al gelsomino dovessero bruciare prima dell'agognato accordo. Le loro note basse e rauche mi hanno raggiunto persino sulla vetta del tempio, una sorta di piramide rococo' che si staglia fiera sulla sponda opposta del fiume Mae Nahm, sostenuta da demoni inghirlandati, sculture di piante rampicanti, ma soprattutto dalla fede in un Siam forte, che sapesse resistere agli appetiti dei Birmani, così come alla rinascita dell'orgoglio Khmer. Lo stile architettonico thailandese riesce ad effondere la quint'essenza della loro delicatezza di spirito, incapace (pubblicamente) di una qualsivoglia forma di sgarbo, vinta da una verecondia istintiva che può solo rifugiarsi in un dolce sorriso di circostanza, colorata e sobria quanto lo slancio creativo dei dravidici indiani, ma a differenza di questi mai eccessiva, mai kitsch. Giusto il tempo per una carezza agli elefanti del Parco Dusit ed un omaggio agli eredi di re Rama I, quindi l'addio.

Si Saket mi aspetta. Lascio Bangkok alle 18.55 per arrivare al confine nord-orientale alle 5 di domattina. All'orizzonte, gia' avvolto dalla nebbiolina monsonica che si alza ogni giorno quando il sole piega ad ovest, si staglia il remoto tempio in cui i khmer rossi versarono il loro ultimo tributo di sangue. Da oggi in poi, i miei dispacci si faranno probabilmente più radi, dal momento che la Cambogia e' terra da "doppietta": se da una parte può anche vantare Internet point nelle località più defilate, dall'altra difetta magari dell'elettricità necessaria al loro funzionamento.

E' ora di caricarsi il kalashinkov sulle spalle e fare i conti con la propria coscienza.
Vi abbraccio compagni. Tenetemi aggiornato dal fronte occidentale.

Albert Herr



DISPACCIO DA SI SA KET - 27.07.07, h. 13.51

...raggiungere il Prasat Preah Vihear, cioe' il tempio khmer per il quale Cambogia e Thailandia si sono sfidate addirittura sui tavoli dell'Onu, non poteva che essere un'impresa titanica. Sono bastate due ore di treno per fondere la locomotiva nel pieno della foresta tropicale, pochi chilometri a nord dell'antica capitale siamese, Ayutthaya. La temperatura delle cuccette e' cosi' schizzata sui 50 gradi con tasso d'umidita' al 100%, mentre all'esterno incombevano incursioni di modernissimi elicotteri d'assalto, per i quali in Italia si usa il semplice eufemismo di zanzare.

Fanculo, questa si' che e' vita! Sembrava di esser tornati ai tempi dell'offensiva del Tet, quando quei dannati musi gialli ci avevano messo con le chiappe al muro!

Alla fine Bangkok e' stata costretta ad inviare i suoi aiuti una volta ancora, sostituendo la locomotiva fusa con un fantastico prototipo d'annata: peccato fosse il modello d'avanguardia del '42, per intenderci quello usato dagli inglesi in rotta sul fiume Kwai, di fronte all'avanzata dell'Impero del Sole. Ha tenuto duro con insospettabile abnegazione, permettendomi di approdare a Si Sa Ket con sole due ore di ritardo. Non pago della lunga marcia, ho posato lo zaino in un hotel pieno di termiti per fiondarmi subito al santuario arroccato sul confine.

Beh, tanta fatica e' stata ricompensata con uno degli spettacoli piu' memorabili della mia vita di viaggiatore: mentre la strada si riduceva ad un sentiero sterrato, subdolamente inghiottito dalle liane, teschi e tibie hanno iniziato ad affiorare sui cartelli segnaletici. Nonostante il lodevole impegno di un progetto franco-thai-cambogiano, l'area risulta tuttora ad altissimo rischio mine. Lo si capisce dalla dimensione delle corsie d'emergenza, praticamente il triplo di quelle normali, affinche' non si abbia la tentazione di scendere nei verdissimi campi per fare quattro passi distensivi. Quelli che incautamente fanno troppi bimbi di qui, traditi dall'entusiasmo dell'eta'.

Quindi interi tratti di filo spinato, con decrepite torrette d'avvistamento thailandesi da una parte, cambogiane dall'altra, in mezzo alle quali si avverte ancora tutta la tensione per una situazione politica che ha lasciato in bocca solo l'amaro del compromesso. In compenso, una volta penetrati nei vecchi territori dei khmer rossi, e' impossibile non sciogliersi in una dolcezza trasognante.

Finalmente lo stupore negli occhi, i timidi saluti, la voglia di carezze ed abbracci, l'incanto di visi disegnati nell'ambra da un'artista addirittura superiore a chi creo' Angkor Wat, l'ottava meraviglia del mondo. Ora capisco perche' ci si innamori a prima vista dei cambogiani: oltre alla loro delicata bellezza, accolgono chiunque col cuore in mano, ti regalano fiori, ti fanno sentire immediatamente membro di una famiglia senza eta'. Il tutto, esaltato dalla fiera possenza di un enorme santuario di arenaria che - visto dall'alto - pare avere la stessa forma dell'Enterprise di capitano Kirk. Torri Naga, lunghi viali colonnati, impettiti leoni pronti a sfidare la rabbia delle piogge e le spire del tempo: una sfida architettonica all'equilibrio e alle leggi di gravita', divenuta nei secoli città fantasma, dove fronde di palma e felci gigantesche camuffavano gli imperdibili bunker di Pol Pot e Ta Mok. Cellette quasi monastiche, alloggiate sotto architravi in cui si aprono gli occhi ebbri di Shiva e Vishnu.

Capita cosi' di scorgere accanto ad un cannone a lunga gettata, rimasto abbandonato esattamente com'era nel 1998, un rinato stupa buddhista fra pareti crepate. Capita di ascoltare un reduce khmer sviolinare una melodia struggente in bui corridoi, mentre tiene il ritmo picchiando a terra il moncherino della gamba; o ancora, il respiro acquietato di una madre stretta al figlio appena nato, mentre si cullano ignari del mondo su un'amaca di fortuna. Oppure capita d'imbattersi nello sguardo di una ragazzina che si nasconde sotto un enorme cappello di paglia a cono, cercando di farti capire quello che la sua lingua probabilmente mai potrà.

E poi gli spettri: sono ovunque. Li avverti camminare nell'ombra, li vedi fasciarsi gli arti mutilati, li senti invocare pieta' mentre annegano nel loro sangue, nel momento in cui la loro affannosa corsa verso l'ultima speranza si e' spezzata per sempre. Loro non possono infatti sapere cosa mai stia oltre la terrazza piu' esterna del tempio, il precipizio che si apre sulle nebbiose foreste della Cambogia, del Laos e della Thailandia.

Ho perso litri di sudore a Preah Vihear, qualche frammento d'anima e forse piu' di una lacrima solitaria. Ci sono posti, al mondo, che ti afferrano le viscere e riescono a strizzarle con la forza di un dio impazzito.

Mi spiace solo d'esser stato tanto taciturno durante il viaggio di ritorno, contribuendo a rafforzare il trauma d'incomprensione di cui soffriva il mio vicino cinese. Ma a volte le parole proprio non escono. Hai un nodo alla gola troppo forte. Un angosciante senso di colpa per una vita che se ne va via cosi', leggera e fatua, ignorando il dramma del nostro vicino, di un uomo in carne ed ossa di cui neppure sappiamo il nome.

Domani mi aspetta Pol Pot. Abbiamo un conto in sospeso ad Anlong Veng.

Con affetto,
Albert Herr



DISPACCIO DA SIEM REAP - 29.07.07 h. 18.07

...e ci risiamo! Un'altra volta in cella! No scherzo, gli spettri del Kazachstan mi hanno solo occhieggiato alla frontiera, ma se sono in Cambogia e' anche merito delle passate esperienze. Tutto e' cominciato con un malinteso sottaciuto: anziche' condurmi al passo di frontiera Choam, il minibus acchiappato a Surin ha lemme lemme deviato verso Chong Jom, ovvero a una cinquantina di chilometri piu' a ovest rispetto al punto in cui avevo programmato l'ingresso nell'ex Kampuchea Democratica. Naturalmente, senza avvertire l'unico farang a bordo del mezzo.

Fra i due passi corre un'enorme differenza: il primo e' molto piu' agevole, perche' a pochi chilometri dalla cittadina incriminata di Anlong Veng e dunque preso di mira - ahime' - dai tanti profughi nostalgici di Pol Pot. Il secondo e' invece noto come il passo degli sfigati, perché gli stranieri pronti a varcarlo si contano sulle dita di una mano dal 1998 a oggi. Le ragioni s'immaginano facilmente: terreni diffusamente minati, malavita sviluppatasi attorno ad alcuni casino' gestiti da ex khmer rossi, oltre al fatto che l'asfalto e' qui ancora sconosciuto. Si snoda solo uno sterrato polveroso che, dopo poche sgommate, riduce i biker ad un termitaio ambulante (le motociclette sono il solo mezzo disponibile per viaggiare).

Sfortuna vuole che allo sportello di frontiera abbia conosciuto l'unico impiegato incorruttibile di tutta la Cambogia, deciso a rispedirmi a Bangkok per via del mio passaporto senza piu' pagine libere. Sfoderando l'aplomb tipico di un brillante suddito di Sua Maesta', ho cercato di rassicurarlo dicendo che avrebbe potuto tranquillamente attaccare l'adesivo del visto sulle pagine con le vecchie marche da bollo. Macche'! Pur di non darmi ragione, il colletto bianco e' andato a consultare i registri amministrativi internazionali! Naturalmente un caso cosi' italiano non era contemplato nell'opera omnia, ma la mia insistenza, o forse la paura di correre brutti rischi con i superiori (qualche ex khmer dal grilletto facile), o semplicemente la voglia di sbarazzarsi dell'unico farang giunto a turbare la quiete delle montagne Dang Krek, ha infine portato il ligio ufficiale a indicare col dito la temuta cella.

Ussignurr, di nuovo? Non mi e' restato che invocare il cattivissimo dio altajco Sung Tuk Tuk e...stumpatapumf! Lo spirito slavo-nomadico ha improvvisamente invaso tutti i miei orifizi facendomi sbottare nella sua dirompente potenza.

"Kazachstannnnn grrrrr!!!!!": un urlo alla Borat udito sino a Kuala Lumpur, stando al bollettino di oggi. L'ufficiale e' rimasto basito. O forse ipnotizzato. Sta di fatto che ne ho approfittato per spacciare il corso dell'euro ad un valore doppio del dollaro, strappangogli infine l'agognato placet con un'ammicante banconota da 20. Pazzesco come giri il mondo: arrivo nel regno della corruzione e mi scopro io corruttore!

Quindi via spedito verso Anlong Veng, a ben 80 km rispetto ai 10 preventivati ad inizio viaggio: uno slalom fra sentieri disseminati di ricordini esplosivi, palafitte disperse nella giungla infestata da malaria endemica, ponti dagli assi traballanti che scricchiolavano sinistramente ad ogni passaggio. Eppure proprio lungo questo percorso, completamente fuori dal mondo, si e' dispiegata tutta la poesia di una Cambogia ormai in lenta estinzione: una dietro l'altra, si sono succedute immagini profonde quanto cicatrici. Il masso abbandonato su cui gli ultimi khmer rossi in fuga hanno scolpito il profilo dei loro (im)potenti gerarchi - poi decapitati dalle truppe governative nel 1998; la sinistra arena di pali rinsecchiti che fece da tribunale a Pol Pot, allorche' venne drammaticamente processato dai suoi ormai allo sbando; e ancora, il cumulo quasi caldo delle sue ceneri, abbandonate nell'immondizia a eterna damnatio memoriae.

Esiste probabilmente una pietas universale, se in quel terriccio dal sinistro color nero e' oggi sbocciato un geranio di montagna. Pur sempre un fiore velenoso, certo, ma anche un gesto di clemenza che la natura sembra aver voluto donare ad una terra straziata per troppi anni. Ho finito per trascorrere cosi' la notte nella tetra luce da cero che, all'interno della casa rudere di Ta Mok Il Macellaio, cerca inutilmente di scacciare l'eco di urla agghiccianti. Insieme a me, un ex khmer rosso oggi impegnato a riabilitarsi attraverso alcuni progetti umanitari e una tenerissima ragazza che - tradita da alcuni tic - mi ha infine confessato la terribile storia di soprusi vissuti dagli anni '70 ad oggi.

L'arrivo a Siem Reap, che dovrebbe essere il cuore fascinoso della Cambogia per via dei magnifici templi di Angkor, sembra ora solo teatro. Di nuovo sono infatti ricomparsi quegli insulsi turisti dal berretto bianco eternamente a caccia di esotismo condomizzato. Non avendo avuto sufficiente tempo per visitare il complesso dei templi, ho affitato una bici e sono fuggito subito verso un villaggio di pescatori sul lago Tonle' Sap. Volevo tornare a sentirmi un po' piu' cambogiano, un po' meno invasivo e rispettoso del dolore di questa gente, cosi' eroicamente celato nella vita di tutti i giorni.

Ed il miracolo e' avvenuto davvero. Le immense risaie ai bordi della strada, le palafitte in cui giovanissime famigliole ricominciano a vivere con un po' piu' di serenita', la poesia delle donne impegnate a trasportare pesci freschi nei secchi appesi ad un asse di bambu', tutto questo e molto altro ancora hanno risvegliato piano piano una gioia segreta. Beh,
non ho resistito: allungate le cuffiette alle orecchie, a braccia aperte, mi sono lanciato verso l'orizzonte sulle note di "Born to be wild", alla spaventosa velocita' di 30 pedalate al secondo. Uno spettacolo che ha suscitato non poca ilarita' fra i cambogiani. Mai visto uno spilungone scapigliato così sulle loro strade!

Pochi i metri di gloria: una nube di smog mi ha travolto completamente!

Ancora loro! I terribili coreani, gli inesauribili giapponesi, i suppontenti francesi...tutti a bordo di spocchiosi bus con aria condizionata, in cerca di qualcosa che non riescono mai a trovare. Qualcosa che forse si cela proprio nell'imprevisto.

L'aver ascoltato i buffi ribrotti sputacchiati dai pescatori coperti di terra, ha magicamente tenuto lontani i miei strali. Anzi. Mi ha addiruttura unito al loro coro, spingendomi a gridare col pugno alzato: "Pong pong pit pot bolll! Bolllll!!".

E di nuovo ho sentito scorrere nelle vene la gioia piu' profonda.

La felicita' del pirla.

Pong!
Albert Herr



DISPACCIO DA BATTABANG/PHNOM PEHN - 01.08.07, 17.47

..troppo tardi! Il fratello numero 3 e'riuscito a defilarsi una volta ancora, mettendo in mostra un tempismo insospettabile per un ultrasettantenne. Forse qualche voce e'circolata prematuramente al mio arrivo a Battabang; forse qualche solerte guidatore di tuk tuk ha subodorato un naso lungo dietro le mie insistenti domande su dove alloggiasse Khieu Samphan, l'ex ministro alla Difesa della Kamupuchea Democratica. Forse l'uomo oggi piu'odiato e temuto in Cambogia e' semplicemente costretto a vagare senza requie, un po' come capitava nella maledizione dell'olandese volante.

Ipotesi che rimarranno quasi per certo senza risposta, esattamente come senza nome rimarranno le centinaia di teschi, tibie e costole accatastati nelle killing caves, le grotte dello sterminio a 18 km dall'ex cittadina coloniale francese.

In attesa di poter strappare un'intervista che potrebbe conferire una parvenza di senso alla follia scatenatasi oltre 30 anni fa in Cambogia, ho infatti risalito una delle montagne a panettone che si trovano a nord-ovest del paese: sorta di torrette naturali da cui i khmer rossi, sino al 1996, lanciavano incursioni micidiali nei territori controllati dal governo filovietnamita. Eppure, prima di diventare postazioni impredibili, queste stesse erano servite come fosse naturali per nascondere i cadaveri di tutti quanti fossero stati sospettati di deviazionismo dai dogmi dell'Angkar. Praticamente un terzo dei cambogiani. L'aspetto ancor più  scioccante, oltre alla bianchezza fosforescente che illumina le fameliche gole di roccia, é lo stato in cui versano questi scheletri.

I crani sono infranti. Le costole incurvate. Le tibie spezzate. A corto di proiettili, i khmer rossi preferivano assassinare a colpi di bastone, tant'e'che alcune pareti hanno assunto un inquietante color rossiccio.

Avrei voluto parlare anche di questo col fratello numero 3, ma i giorni non sono propizi. A Phnom Pehn hanno inaugurato da pochissimo un nuovo carcere, destinato proprio agli ultimi khmer rossi in circolazione. Khieu deve aver intuito le grandi manovre e si sara'dato alla macchia. Ma lo tallonero' in ogni modo, almeno sino a quando sarò qui in Cambogia. So che, per rilasciare un'intervista "di parte", sarebbe disposto a chiudere anche un occhio sui suoi tradizionali scrupoli.

Resto dunque in attesa qui a Phnom Pehn, pronto ad inforcare di nuovo la motocicletta per raggiungerlo ovunque si trovi. Nel frattempo mi sono consolato con alcuni deliziosi brandelli di maiale cucinati secondo la ricetta Amok, il tipico piatto khmer a base di fagiolini verdi, neri, succo di cocco e cipolle a fette, oltre a curry e peperoncino astutamente mimetizzati in una montagna di riso.

Il loro aspetto dilaniato mi ha richamato alla mente Tetsuro Ho. Giapponese, 26 anni, fanatico delle mutandine rosa decorate con maialini alati, nei giorni scorsi e'stato il mio piu'acerrimo avversario durante la scoperta dei templi di Angkor.

Ci siamo lanciati il primo sguardo di sfida attorno alle 5 del mattino, mentre pedalata su pedalata eravamo intenti a battere sul tempo chiunque volesse contemplare i colori dell'alba al Wat maggiore: lo strepitoso complesso a 5 torri dalla forma di ananas che, fra vasche d'acqua, bassorilievi di seducenti apsara e viscidi serpenti Naga, rappresenta l'apice dell'architettura khmer.

All'inizio ci superavamo in continuazione, sorridendoci. Poi qualche speronamento goliardico. Scherzare con i giapponesi, tuttavia, é un po' come scherzare col fuoco. Dal momento che nessuno dei due dava segni di cedimento, Tetsuro ha sfoggiato a sorpresa una bandana col Sol Levante del 1940, un paio di occhialoni da side-car, urlandomi infine qualcosa del tipo: "Tora! Tora! Tora!". Non ho potuto far altro che rispondere calcandomi sul naso una montatura RayBan alla MacArthur, dando affondo a tutte le energie rimastemi dalla precedente giornata da biker.

Solo due kamikaze potevano infatti avere la pretesa di percorrere oltre 30 km sotto il cocente sole tropicale, solo per visitare l'intera area sacra di Angkor Thom. Sul piu'bello, quando Tetsuro stava digrignando i suoi dentoni gialli sicuro della vittoria, ha imboccato pero'un bivio non segnalato e non e' piu' ricomparso, causando forse lo spaventoso botto che per un attimo ha agghiacciato le migliaia di turisti in circolazione. Cosi 'e' la vita. Gloria e polvere sono in fondo lati della stessa medaglia. Angkor ne e'la metafora e al contempo il monito piu'paradigmatico: vetta dell'ingegno idraulico votato a moltiplicare la produttivita'dei campi di riso circostanti, teatro delle chimere religiose che di secolo in secolo hanno ripetutamente scalzato dei hindu, spiriti animisti e Buddha panciuti, oggi appare soprattutto la tomba magniloquente di ogni pretesa di potere.

Non sono bastati i cento enigmatici volti scolpiti fra le mura del Bayon, per prevedere le possibili insidie al raggiungimento della perfezione umana, ne' tanto meno gli oltre 50 templi fatti erigere in un agone pronto a spingersi sempre piu'in la'. Oltre ogni limite. Oltre la natura stessa dell'uomo. Piano piano tutto e' stato infatti inghiottito nel ventre oscuro della foresta tropicale, stritolato dalle sue radici infinite, riconsegnando alle scimmie cio'che i sovrani khmer pensavano di aver affrancato per sempre alla mito della ragione.

In fondo, basta una semplice distrazione per perdere tutto quanto si e' faticosamente costruito: Tetsuro non si e'accorto della deviazione (o forse l'ha cercata delibratamente, ormai consapevole di non poter piu' reggere la sfida), io ho speso due ore, tre minuti e 12.934 giapponesi per poter cogliere il suggestivo Ta Prohm nel suo solatio splendore decadente, dimentico del mio block-notes e dello zainetto lasciato ai piedi di una delle tante piante avviluppatesi alle suoi torri.

Ebbene, ormai pago di aver scattato la foto tanto agognata, mi sono allontanato nella certezza di aver strappato un frammento d'eternita' ai cicli karmici di Angkor.

Dapprima e'stato solo un brivido. Qualcosa che mi e'parso scendere dalla base del collo alla punta della spina dorsale. Poi il brivido e'diventato fastidio. Infine orrore. Si, quell'orrore che gia'aveva echeggiato sulle labbra di Martin Sheen alla fine di Apocalypse Now, che dei chiaroscuri del Ta Prohm ha fatto il suo insuperabile scenario manicheo.

Non ero solo. Nel mio zainetto british qualcosa di muoveva. Scaraventatolo a terra madido di sudore, non ho avuto la forza di aprirlo sino a quando e'intervenuto un agente della polizia turistica. Come se nulla fosse, ha fatto capolino un bruco giallo-nero lunghissimo, simile ad un serpente: pur non essendo il micidiale haluman, il rettile da cui più volte la Lonely Planet mi aveva messo in guardia, la sua vista e'stata altrettanto disgustosa.

Anche lui ha avuto poca gloria. Lo hanno appiatito immediatamente sotto un masso. Non mi hanno detto nulla circa la sua natura, ma per averlo fatto significa che proprio innocuo non fosse. Memore dello shock, ho trascorso il successivo viaggio lungo il canale fluviale fra Siem Reap e Battabang assumendo una molto piu'accorta posa da tarabusino costipato. Anche senza lambire l'acqua torbida del maggior fiume cambogiano, é infatti possibile avere una visuale magnifica delle palafitte di bambù disperse negli immensi canneti. Per oltre 10 ore di navigazione nei più fitti meandri fluviali, mi sono lasciato circuire solo dal fascino delle reti da pesca dispiegate al vento, dalle farine di pesce setacciate con amorevole lentezza, dai cappelli di paglia che disegnavano improbabili geometrie sulla linea dell'orizzonte trascolorato.

Ma non basta. Una volta assaporato il gusto del rischio, e'difficile dimenticarlo. Nella vecchia cittadina coloniale francese, dove bistrot scalcinati si succedono a nostalgie parigine, e'stata una giovane guida a pronunicare la parola magica che tuttora mi angustia. Sussurata, quasi impercettibile, eppur straordinariamente nitida alle orecchie di chi cercava proprio quello.

Khieu disterebbe appena tre ore di moto dal punto in cui l'ho localizzato, oltre le caverne in cui giacciono abbandontati gli ultimi arsenali usati dai khmer rossi contro il governo centrale. Il Fratello Numero 3, quando non e'in fuga, nicchia a Pailin. Il dado e' tratto. Se il diabolico nonnino fara'ritorno in citta', lo andremo a trovare su due piedi. 

Perché la storia é qui. La storia é ora. 
Come direbbe quel gran mattacchione di Bush...let's roll!

Pugni chiusi a tutti,
Alber Herr



DISPACCIO DA HO CHI MINH CITY - 04.08.07, h. 15.37

Gooooodevening, Vietnam! Sopravvissuto ai torrenziali tifoni che ieri sera si sono abbattuti su Phnom Pehn - probabilmente gli stessi che hanno mietuto vittime nel Bihar indiano - sono infine approdato alla supercongestionata Saigon. Un turbinio continuo di moto, moterette, biciclette e risciò privi di qualsiasi attenzione per gli spaesati pedoni, costretti a giocarsi la vita ogniqualvolta vogliano attraversare la strada.

Il viaggio non e' stato dei più agevevoli, visto che lasciata la capitale cambogiana e' sparito pure l'asfalto, per cui il nostro bus e' avanzato a passo di lumaca in un mellifluo manto di fanghiglia per quasi otto ore. Non da meno sono state le procedure di controllo al blocco di confine, dove inspiegabilmente ho pero' riassaporato una certa aria di casa, di piacevole familiarita', dopo anni trascorsi lontano dalla mia amata Russia: bandiere rosse che svettavano fiere in un cielo quanto mai tempestoso; stelle dorate, falci e martello, lo sguardo spietato delle guardie vietnamite.

Che brividi! Se poi ripenso alla passeggiata di stasera, conclusasi sotto la statua dello zio Ho, mi verrebbe voglia d'inforcare subito il fucile contro tutti quanti hanno fatto di Ho Chi Minh City il non plus ultra del capitalismo asiatico.

Ormai abituato alla compostezza di Phnom Pehn, lo shock non e' stato da poco, sebbene laggiu' il clima si fosse scaldato troppo per i miei gusti. L'ultima sera sono praticamente finito ostaggio di un americano pazzo, che vive da oltre 10 anni nella camera d'albergo accanto a quella dove ho soggiornato io: forse colpito da nostalgia per un volto occidentale, mi ha gentilmente invitato a sorseggiare una birra con lui, godendoci il fresco della terrazza che dava sul fiume Tonle' Sap. Mentre discutevamo dei nostri viaggi nel sud-est asiatico (lui e' un soldato impegnato in operazioni umanitarie in Cambogia), strani scatti nervosi lo elettrizzavano ogni volta che facevo menzione ad Ho Chi Minh City. Ad un certo punto e' balzato in piedi, ha inferto un violentissimo colpo di karate' ad una pianta del balcone e - gli occhi fuori dalle orbite - si e' messo a sbraitare: "Saigon, porca puttana! Si chiama Saigon quella fottuta citta'! Hai capito??".

Al che gli ho detto che forse era meglio andassi a farmi una doccia, barricandomi nella mia stanzetta bolscevica. L'ho spiato per quasi un'ora, mentre occhieggiava dall'alto i musi gialli in strada e borbottava fra se' e se' cose incomprensibili. Sono stato salvato solo dall'arrivo del tifone, pronto a risucchiarlo chissà dove mentre sghignazzava forsennatamente. Pare l'abbiano ritrovato 24 km più a nord, nella provincia di Kompong Chom: da una palude putrescnte sporgeva solo il suo indice puntato al cielo.

Notizie di decessi sono all'ordine del giorno in questo viaggio, tanto piu' dopo la visita drammatica alla prigione segreta di Tuol Sleng e ai vicini campi di sterminio, dove fra pareti scrostate, strumenti di tortura e montagne di teschi, si ha quasi la sensazione di essere osservati dai fantasmi delle migliaia di vittime qui assassinate.

Inevitabilmente il nostro attaccamento alla vita ci porta a considerare la morte come qualcosa di assurdo, ingiustificato, qualcosa che ricorda con odiosa evidenza la nostra finitezza. Eppure, di fronte al dolore infinito che si puo' patire in un istante di vita, cosi' come al prosciugamento di ogni nostro slancio nella stanca monotonia di una quotidianita' senza piu' scopo, la morte offre davvero una liberazione. Sara' l'influenza buddista, o forse la pace che riescono a trasmettere le fosse scoperchiate - dove frammenti di scheletri e vestiti sono tornati ad essere leniti da un'erbetta innocentemnte fresca - ma nel momento in cui alle ossa viene riconosciuta la loro verita' celata, finalmente nello spirito riesce ad infondersi una pace che mai avremmo sospettato...

Un senso di vicinanza e partecipazione che, alla stregua del buon Seneca, ci fa esclamare di fronte ad ogni diversita': fratres sunt!

Un abbraccio,
Albert Herr



DISPACCIO DA HOI AN - 09.08.07, h. 7.32

Italia1! Italia1, rispondete!! Ma porca puttana, chi mi ha passato questo catorcio di ricetrasmittente? Per Dio, siamo l'esercito degli Stati Uniti d'America! Se mi sentite, qui e' il generale Westmoreland che vi parla: siamo riusciti ad avanzare sino alla cittadina di Hoi An, senza incontrare grosse resistenze.

Posizione alpha33, meta' Vietnam. Praticamente ci arrivano gli sputi in faccia di Charlie, rintanato da qualche parte a spiarci dietro la DMZ (la zona smilitarizzata, nel caso qualche matricola dalla vescica facile non avesse fatto i compiti!).

Italia1, ricevete? Ho dovuto farmi carico io della corrispondenza, perche' quel debosciato di Life - Albert Herr - pare sia venuto qui solo per fare surf sulle onde di Mui Ne'. L'ho beccato proprio l'altro giorno, mentre scriveva poesie in lode ai pescatori della zona e girava come una trottola sulle loro ceste galleggianti! Mai fidarsi dei musi gialli, anche se ti sorridono senza denti e ti offrono pesce crudo: avrei voluto farlo saltare in aria chiamando un B52, ma può darsi che la sua tattica ci apra una via per salire a Hue' nei prossimi giorni.

Tutto sommato, se la cavicchia per essere uno dell'Oklahoma! E' riuscito a intrufolarsi persino nel triangolo d'acciaio alle porte di Saigon, nella zona dei tunnel sotterranei di Cu Chin. Nella sua divisa grigio topo e' strisciato in una galleria superando carriarmati e mortai nemici, si e' aperto la strada a colpi di AK, per arrivare pero' in un bunker sotterraneo abbandonato da poco: stavano girando ancora un filmetto deprimente sullo zio Ho in campagna, mentre un camino acceso ci ha illuminati su come facciano quei bastardi a sfuggirci ogni volta.

Non fanno uscire il fumo in prossimita' dei loro rifugi, ma lo canalizzano per chilometri e chilometri!! Ecco perche' il nostri bombardieri fanno sempre cilecca, pur avendo rivoltato questo settore come un calzino imputridito dalle acque del Mekong!
Purtroppo l'assalto a vuoto ha generato una crisi mistica in Herr, tant'e' che abbiamo dovuto inviare il tenente Martin Sheen a recuperarlo in un remoto monastero cadaoista. Pare che li' ti facciano il lavaggio del cervello: a furia di ripetere che Lao
Tse, Buddha, Gesu' e Maometto sono tutti figli di quel buon barbuto che sta lassu', il nostro ha lasciato penna&fucile per vestire un abito giallo da freakkettone di San Francisco.

Fortunatamente Sheen lo ha riconosciuto durante una cerimonia celebrata in un postaccio a tal punto kitsch, che pareva uscito da un fumetto di Topolino: colonne a forma di draghi avviluppati su se stessi, finestre a triangolo in cui si apriva l'occhio divino (ad esser sinceri, porca vacca, a me sembrava l'occhio stampato sui nostri verdoni!!), processioni multicolori avvolte in una sospetta nebbiolina dolciastra...beh, Sheen ha fatto un buon lavoro, ma abbiamo dovuto spedire Herr a Mui Ne, cosicché possa tornare in servizio in piene forze. E fateci i complimenti, cazzo! Abbiamo evitato un nuovo caso Kurtz!

E' pur vero che, nell'eccesso di cure riservate al nostro corrispondente, Herr é quasi scivolato dalla padella alla brace. Si vocifera sia rimasto completamente imbabolato di fronte ad una coniglietta australiana arrivata per tirare su un po' il morale alla truppa. Li hanno visti allontanarsi lungo una spiaggia bianchissima, su cui stava inabissandosi un sole più rosso del compagno Breznev! Ho comunque fiducia in Herr: sotto sotto resta uno spirito nomade, quindi un po' mongolo. Appena sentirà puzza di radici piantate, tornerà col pugnale fra i denti e un bengala nel culo...

Qui al fronte la vita é grama: le piogge ti sferzano e il sole ti abbrustolisce, ma non molliamo. Siamo piu' duri dell'acciaio, cosi' come di tutta quella propaganda rossa che cerca d'impietosire mostrando scatti di bimbi bruciati dalle bombe al fosforo, orribilmente deformati dall'agente arancio e con qualche arto in meno.

Fanculo, ogni democrazia ha i suoi costi! Quando potranno andarsene in giro col cappellino degli Yankees in testa, sarà tutto bell'e dimenticato...

Aaaaa...ttenti!

In fede,
Generale Westmoreland,
comandande in capo dell'esercito americano in Vietnam



LETTERA DA HUE' - 12.08.07, h. 12.02

..lance e picche, sangue e clamore, intrighi ed eroica dedizione. Prima che il Vietnam perdesse l'eta' dell'innocenza, avventurieri di lidi lontani solevano bere insieme vino di riso lungo i canali di Hoi An, mentre a Hue' andava in scena una danza di draghi e lanterne per accendere sogni di gloria nell'onorabile dinastia degli imperatori Nguyen.
Per una strana alchimia tutto questo riaffiora ancor oggi, passeggiando lentamente sotto i ponti di legno, riposando all'ombra di pagode ottagonali che fanno dei grandi cedri piccoli bonsai, o ascoltando il delicato suono di un flauto mentre il tramonto imporpora le canne di laghetti zen...

In fede,
Mandarino Tan

LETTERA SEGRETA DA HANOI - 15.08.07, h. 2.55

Hey Hey Big Potatoes!! How are you??

Non sono impazzito, non temete! Le suggestioni delle localita' che sto visitando sono semplicemente cosi' intense, da risvegliare parte delle tante personalita' nicchianti negli anfratti del mio ego freudiano. Certo un po' dipende anche dall'assunzione di betel, una specie di frutto sugoso che va succhiato a lungo per recuperare le forze, a causa del clima sfibrante.

L'altro giorno ho infine lasciato Hue' per raggiungere al mattino presto Hanoi, convinto che qui a nord fosse piu'fresco, invece manca il respiro. Visitare la capitale in queste condizioni non e' per nulla facile: i ritmi vanno soppesati davvero con attenzione, onde non crollare a terra come pesche disidratate. Ciononostante non ho rinuniciato ai tanti pellegrinaggi di rito: ci sono musei incredibili dedicati alla gloria del proletariato vietnamita, pagode fluttuanti su laghetti idillici, stretti vicoli impregnati di profumi di spezie e wantong fritti...ma, soprattutto, ho ritrovato Lui!

La prima tappa ad Hanoi e' infatti consistita nel correre a contemplare la statua del grande Vladimir I'lic Ulianov, giusto per risvegliare un po' di nostalgia soviet nel mio cuoricino bolscevico.

Purtroppo, arrivato nella piazza indicata dalla cartina, il grande leader russo pareva essersi volatilizzato nel nulla! A mo' di Peppone, ho chiesto spiegazioni tutto indignato, pretendendo che giustificassero la rimozione del compagno Le-nin, ma un veterano vietnamita non ha mosso ciglio. "Gdie kazz, tovarisc Le-nin?", l'ho redarguito nella lingua ancor oggi più diffusa in città. Lui ha preso la mia cartina, l'ha capovolta, e mi ha torto la testa. Era semplicemente alle mie spalle!

Beh...la commozione e' stata grande e mi sono profuso in un panegirico rossissimo di 48 minuti, rimpinguato dall'immediata visita al mausoleo di Ho Chi Minh. Davvero toccante: la sua salma riposa in piena serenita' all'interno di un edificio a forma di loto socialista, dove la temperatura fissa si aggira attorno ai 4 gradi. Un paradiso! Ho cercato di nascondermi dietro il cadavere dello zio Ho, per recuperare un po' di fiato, ma la guardie mi hanno scambiato per un necrofilo e mi hanno malamente cacciato via

Fra stelle rosse, falci e martello, nonche' slogan propagandistici ripetuti tutto il giorno negli altoparlanti, ad Hanoi mi sento davvero a casa. E' pero' gia' tempo di rimettersi in marcia, dal momento che trascorrero' questi ultimi giorni in alcune delle localita' piu' affascinanti del Vietnam. Stamattina parto per un'escursione nella zona di Tam Coc, dove splendide montagne tondeggianti e ricoperte di foresta tropicale affiorano delle risaie a mo' di panettoncini Motta. Il paesaggio é molto simile a quello della Cina Meridionale. Quindi mi spingerò ancora più a nord, praticamente al confine con l'antico Celeste Impero, dove vivono Montagnards dai vestiti a fiori, fra terrazze coltivate a 1500 metri d'altitudine e ponti di legno sospesi su torrenti catartici. 
Ultima tappa, la famosa Halong Bay.

Pugni chiusi
Albert



DISPACCIO DA SAPA - 16.08.07, h. 17.39

...catturato dai Montagnards! Chi l'avrebbe mai detto!

Dopo aver superato le insidie del Mekong, la contraerea al confine col Vietnam del Nord, nonche' gli insidiosi vicoli rossi di Hanoi, sono stato giocato dall'avversario piu' temibile: una vecchina di 70 anni dal canino luccicante.

Sono bastati pochi secondi d'incertezza per cadere nella sua rete sottile: esausto per aver camminato oltre 10 km lungo il fianco del monte Fansipan (la piu' alta vetta del Vietnam, quasi 3.500 metri), una lattina energetica di Wild Goat m'ha tradito. La gioia per aver raggiunto la splendida cascata di Tach Bac, dove mi ero ripromesso di sedermi nudo e a gambe incrociate sotto le sue acque dirompenti (sono pur sempre un seguace di Goemon Ischikawa!), ha fatto si' che abbassassi la guardia, sedendomi accanto ad un'incallita venditrice h'mong. Ben celata nella sua divisa blu, impreziosita da pizzi fiorati e pendagli
argentei, ha lentamente sfilato dalla borsetta una serie infinita di lavori all'uncinetto, braccialetti intagliati, scatolette piene di oppio, testicoli di cinghiale portafortuna e persino l'indicibile reliquia di un marine dato per disperso nel '66.

Non c'e' stato verso di staccarla, dal momento che appena voltavo le spalle per bruciarla in velocita', lei riusciva a spiccare voli felini aggrappandosi alla mia schiena, per poi rincarare la dose con morsi di gengive sdentate e aizzando le sue amiche a lanciarmi addosso olezzose torte di bufalo vietcong.

Alla fine sono riuscito comunque a liberarmene, roteando su me stesso con una grazia classica equiparabile solo a quella di Carla Fracci, tant'e' che pochi secondi dopo si e' sentito un urlo spegnersi sul fondo di una voragine coltivata a terrazze di riso. Purtroppo lo scontro mi ha lasciato del tutto disorientato e, prima di poter rientrare a Sapa, ho vagato a lungo per remoti villaggi di tribu' Tsao, H'mong e Thay, cercando di spacciarmi per un barbuto anacoreta delle montagne dello Yunnan.

Forse il Pentagono mi condannera' per disfattismo, ma temo proprio che non verremo mai a capo di questa guerra, vista la tenacia messa in mostra persino dalle tribu' delle retrovie. Ancor peggio, la mia copertura e' saltata: una seducente ragazza di Bolzano - durante il viaggio notturno in treno - ha riconosciuto nel buio della cuccetta la lingua dei miei documenti, finendo cosi' per mitragliarmi di nostalgie patrie e struggenti solitudini femminili...forse e' davvero giunto il tempo del riposo del guerriero. Halong Bay aspetta...

Gabba Gabba Hey!
il ritrovato Albert Herr



DISPACCIO DA HALONG BAY - 21.08.07, h. 4.19

...Smygoool?.....Smygoool, ma dove sei?..."nooo! Lasciami in pace, io sono Albert..."...."Dai, Smygol...non fare cosi'...lo sai che ci piace scherzare..."...ahh, basta! basta!!...Voci, sento voci dappertutto, mi chiamano, mi pungolano, mi scherniscono...non avrei mai dovuto scendere nelle grotte di Halong Bay. Sono infide. Masticati da enormi stalagmiti, ipnotizzati da luci psichedeliche che filtrano in violetti scarlatti e blu canarino i pochi raggi di sole che osano disturbare il ventre di Madre Terra, abbiamo riparato nell'ultimo rifugio predisposto contro le invasioni barbariche.
Piu' di 30 anni fa qui si asseragliavano gli eroici partigiani in fuga dai bombardieri americani, oggi solo globetrotters insofferenti e qualche verde creatura, dagli occhioni curiosi, che zampetta in cerca del suo tesssoro.

"Sei gentile a chiamarmi cosi', Smygol..."..."BASTA! Vattene via, Gollum!". Scusateci, ma noi battibecchiamo un po'. Cioe', io. Io battibecco!

Nonostante le centinaia di turisti che, ogni giorno, accorrono ad Halong Bay per solleticare la propria fantasia, dando un nome o una forma agli enigmatici pinnacoli calcarei affioranti dal mar del Tonchino, questo posto e' avvolto da un'inquietante aura fantasmagorica. Soprattutto di notte, quando sottili nebbioline s'insinuano fra scogli aspri, fameliche gole e fronde di foresta pluviale protese a ghermire le ombre della paura.

E un fantasma non puo' che essere la splendida e pallida creatura che ho intravisto dall'oblo' della mia giunca, mentre i sensi cullavano alla deriva.
Vestita in un Ai dao immacolato, dalle maniche ampie e svolazzanti, se ne stava immobile sulla prua di una nave dalle vele a forma di mezzaluna, le lacrime agli occhi, le mani ad invocare la furia delle acque.

Sono certo stesse aizzando il mitico drago Tarasco, che le locali leggende vogliono ancora nascosto fra queste acque smeraldine. Gia' un tempo la sua corsa affannosa sconvolse la geografia del Vietnam, lasciando dietro di se' orme enormi che hanno dato poi vita alla baia piu' famosa del sud-est asiatico. La sua venuta e' ora attesa dai molti pescatori e cacciatori di perle che, affumicati da orde di battellini caracollanti, vedono minacciata la loro vita quotidiana da bionde creature abbrustolite, probabilmente convinte di trovarsi sul set di "The Beach".

Il mare e' d'altra parte incantevole, placido, caldo quanto l'abbraccio di una donna abbandonata all'amore, e non smette mai di chiamare. Cosi' ci siamo spinti e continueremo a spingirsi sempre piu' in la', oltre la linea dell'orizzonte, certi che la risposta ai nostri perche' sia custodita la' dove ancora non siamo. Ci cerchiamo e non ci riconosciamo, ci ritroviamo eppur non osiamo ammettere quel che sarebbe potuto essere, semplicemente perché non é stato.

Anime senza terra, vaghiamo per lidi remoti in attesa che le acque montino una volta ancora e, nel loro erotico intreccio, ci catapultino su un'isola cui solo noi avremo il diritto di dare un nome. La' cammineremo nudi ed innocenti, mano nella mano, finche' le nostre labbra assaporeranno il gusto del proibito, sciogliendoci nell'urlo troppo a lungo castigato.

"Vietnam! Vietnam! Vietnam! Ci siamo stati tutti..."


Qui si chiude la storia dell'inviato di Life Albert
Herr, partito per difendere l'onor di cronaca del
paese di MacDonald e scomparso oltre le fila nemiche.
Fonti non attendibili lo vogliono ora in forze alle
truppe vietcong, dopo la sua meditata ed entusiastica
conversione al radioso avvenire marxista. Pare che il
suo nuovo nome di battaglia sia "Bao Sun Tzu", ovvero
"L'uomo tigre", agente speciale da infiltrare in
territori occidentali in vista di un'opera capillare
di proselitismo rosso. Primo obiettivo, verificare se
esistano sospette affinita', oltre ad esplicite
assonanze, fra la famiglia Pichler ed un certo Adolf.
Che Josif Djugasvilj lo protegga...

Pakà!

Gollum

IN MEMORIAM DI ALBERT HERR

Le ultime fonti attendibili dal fronte nemico lo davano desaparecido
tra le montagne di Sapa a Nord del Vietnam.
Abile pionere scalatore e scrittore di nuvole reduce da sogni d'oppio a Saigon
dopo aver sconfitto anche il fiume potente e magnetico
prosegue sempre piu' in alto la' dove solo osano
le aquile.

Partito a stregua di mandarino-saddhu, il giovine Tan
non ha saputo piu' che pesci pigliare nella baia di Halong.
E dal lontano Regno d'Italia siamo giunti anche noi
ricalcandone le orme leggere e pazienti di passo in passo
lungo il fiume silenzioso, la violenza del monsone
a tartassarci le spalle (e le macchine fotografiche)
fino a qui siamo giunti. Deliziati da cotanto futuro.

Venerato il Dio di Giada
rimirato Siddartha dormiente
accarezzati gli angeli caduti dall'alto dei tetti di hayao
con stupita meraviglia
due guerrieri cyberpunk rivolgono ora il loro sguardo
verso nord laddove tutto ebbe inizio.
Dal fiume.

Un abbraccio ^_^

Mati-Mangh


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