"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

lunedì 12 marzo 2007

PENSIERI IN APNEA



C'è chi nasce corridore, anche se sul petto porta il numero 625. Forse costui non riuscirà mai a risalire la china, a scorgere il traguardo prima di tutti gli altri, a reclamare la sua inconfutabile identità sulla massa informe, ma sotto sotto non è neppure quel che cerca. Corsa e vittoria sono ben lungi dal combaciare nel vocabolario della sua vita, al di là di qualsiasi talento possieda. Anzi, talvolta il talento stesso si rivela un limite estremamente penalizzante, laddove impone l'univocità del risultato. Si distingue solo il traguardo, si pensa a scavalcare un ostacolo dietro l'altro, senza rendersi conto che non c'è conquista più grande del non farsi inquadrare in un numero, attraverso cui sia assegnata una posizione ben definita, al pari di un modo d'essere chiaro e distinto.

D'altro canto, è pur vero che il corridore non può vivere senza traguardo. Ha bisogno di dare un senso al proprio passo, altrimenti non troverebbe ragioni per resistere al peso sempre più greve delle gambe sfinite, al fiato sempre più corto che appanna la vista e ottunde l'udito, ma ancor più al bisogno di lasciarsi alle spalle un'immagine di sé entro la quale ha smesso di riconoscersi.

Non può essere il percorso stesso, che nel suo snodarsi consapevole conserva in sé qualcosa di velenosamente coercitivo; non può essere neppure lo sguardo d'ammirazione rubato al tifo, tanto volubile e distante, perché sempre a caccia di un gesto che faccia sognare. Un giorno è un sorpasso prepotente, un altro una caduta rovinosa.

No, il traguardo è quanto ci si lascia alle spalle, si riconosce nel momento dello stacco, quando la consapevolezza di aver oltrepassato ciò che ritenevamo impossibile, diviene improvvisamente l'urlo dell'evidenza. Questo traguardo non ha però un luogo dove situarsi, né si presta ad essere “previsto” o “ricercato”: è un sentore di desiderio, che invita alla nomadicità della corsa e all'infedeltà della passione.

Ma alla fin fine, viene da chiedersi, perché mai correre, anziché camminare? Chiedetelo al vento, quando scioglie i capelli e fa bruciare il sudore negli occhi. Chiedetelo al vostro corpo, quando aleggia sul terreno e avverte il brivido dei cieli dischiusi. Chiedetelo ai libertini, quando fremono per uno sguardo senza veli, mentre passeggiano a braccetto; perché se mai è dato dire che cosa sia il piacere della corsa, ebbene questo è il piacere dell'abbandono: cura di una carezza, che indugia nello scivolar via.

Così si chiude dunque la mia partecipazione alla 21esima edizione del trofeo brianzolo di corsa campestre: ho macinato 6 chilometri per 6 sabati, ho lottato contro il tempo che si fa età, ho inseguito un avversario che non ha tenuto infine il mio passo, ma soprattutto ho ripetuto nei silenzi della mia fatica l'unica verità cui resterò fedele sino a quando avrò la forza di correre: “che tutto un giorno possa crollare, che niente e nessuno mi faccia capire”, che il fuoco mi bruci, prima che inizi a crepitare...

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