"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

venerdì 31 agosto 2001

INTERAIL/INTERBUS 2001



Affresco mancato di un vagabondo indeciso

26 Agosto 2001, h. 15.49 - panchina incrinata degli Spintikteiche (Austria)

Come capita ai farraginosi espressi che solcano le rughe d'Europa, il pendolo dell'incertezza - ormai destinato a scandire ogni singolo stormire delle nostre piume imbrattate - non può fare a meno di oscillare fra due estremi alquanto pericolosi, ma in fondo allettanti: lascia che sia o taglia la corda.
Le ossessive angustie delle pellicole Perutz parlano già di per sé di un affresco mancato, che può solo conservare l'ineffabile impudenza di un viaggio a ritroso, le cui strizzatine d'occhio soddisfano appena il senso di colpa per un'occasione sorbita a metà. Per fortuna l'odore di alghe ammuffite nel porticciolo a fianco di Nyhavn suole inondare i polmoni di quel rassicurante senso di stantio che la capitale danese, pur nei luminosi sorrisi delle sue inafferrabili cicliste scosciate, riesce a dispensare ogniqualvolta si calpestino le mattonelle di peregrini voli estivi.
L'unico araldo cui candidamente possiamo affidare il nostro sospiro è allora il richiamo di una sirena, che si spegne negli stinti barlumi di una giornata feriale: disvelando il silenzio di un istante perduto, suona come un invito malizioso rivolto al popolo dei vagabondi. Le acque increspate non hanno infatti ancora terminato la loro suadente litania, né, d'altro canto, rinunceremo ad agguantare l'ultimo gabbiano del tramonto, perché i giochi delle onde conducono verso sponde sfuocate ove albeggia il desiderio di dispiegare le ali della curiosità.
E' qui dunque che prende avvio il nostro viaggio posticcio, nell'angolo più scialbo e melanconico di una terra lontana, irresistibilmente legata ai destini di funi che si avvinghiano a ganci ossidati, lasciando che il muschio vellutato osi candidarsi al ruolo di testimone più schietto del folle librarsi della fantasia, i cui labili contorni non possono essere trattenuti dalla morsa asburgica di abeti bianchi. Un po’ come avvenne nei vicoli neoclassici di Tallin, quando ci si buttò all'inseguimento di una stupenda poliziotta in minigonna, senza curarsi di privilegiare una scollatura di troppo ad un architrave anseatica. Qualsiasi spiegazione che miri a giustificare la presenza di una facciata verde pisellino sul corso, di un piccolo lampione a gas all'ingresso di una cantina medioevale, o l'imponenza della torre d'avvistamento solcata da una rosa rampicante, è destinata ad infrangersi contro l'austera compostezza del vecchio municipio in pietra grezza: bellezze sbocciate per assecondare le illusioni di un'occhiata furtiva, per blandire la vanità della storia, sino al giorno in cui un battito di ciglia calò il sipario sulle ambizioni del nord, coronato d'ambra.
Non conviene sporgersi troppo dal pontile di una nave fantasma. Se i cirri all'orizzonte paiono pennellate indelebili sul fragile manto di una sposa, il livore delle acque baltiche ha infine spezzato ogni possibile dialogo con muti interlocutori. Viene da chiedersi se questo ripostiglio di tormenti abbia già detto tutto quanto ci si potesse aspettare o se semplicemente taccia per dispetto. Come si spiegherebbe altrimenti l'insolita pettinatura dei riccioli spumosi, decisa a celare l'intimità dei grigi gorghi marini?
Il punto di fuga da cui la terra trae volto è soffocato dalla greve impassibilità del tempo: un'enorme volta ci separa dai raggi trascorsi, ove l'eco di operette a lungo studiate si avviluppa alle cupole dorate di Novgorod, alle labbra sottili e cordiali di una passante della stazione bus che si sforza di offrire indicazioni errate. Superato il confine della normalità, nelle lande care ad Alexandr Nevskij occorre affidarsi ai rischi del paradosso, o meglio al duplice volto di un ragazzo il cui soprannome richiama le virtù di un prodigioso medicinale, capace di condannarti o salvarti da una notte all'aperto con la stessa efficacia del Tolyd 2360.
Russia è poi immancabile sinonimo di vodka, Moskovskaya o Napoleon che sia, è l'ebbrezza dell'abbandono che ha assunto i tratti un po’ grotteschi di un paese tanto vezzoso quanto il profumo di un baujolait d'annata, respirato fra le allegre pareti dell'Honey Money, ma anche rotolando per terra sul far del giorno, dimentichi di un'incredibile sconfitta a biliardo inflitta dal gentil sesso e circuiti dalle braccia di due francesine bisognose d'affetto.
Sarà la costante presenza di una figura amica, sarà la mancanza di silenzi ed assenze reclamati dal nostro romantico egoismo, ma è certo che un viaggio condiviso può solo confondere nell'amalgama del sentire gli spruzzi impudenti tanto ostili alle anime distratte, così come l'affilato profilo di schegge e frammenti non può che esser smussato dal riso grasso di una battuta da osteria o dalle bizzarrie di un datato cartoon giapponese.
Se meno acuto diviene lo sguardo di un viaggiatore privato della sua solitudine, se più pingui e socievoli appaiono i lineamenti dei pedoni, al pari di saltuarie compagnie danesi e canadesi, è pur vero che una scintilla altezzosa continua ad ardere sotto la soffice moquette dell'unica imbarcazione in grado di illuminare al contempo le rotte del passato e del futuro.
Non basterebbero le stelle della via Lattea per dipingere l'arcobaleno di sensazioni scaturite fra gli scherzi d'acqua di Petergof, dietro l'assonnata sobrietà di un borgo puskiniano quale Gatchina, presso cui il mastro di posta aspetta ancora il ritorno della figlia sedotta, o nelle travi intarsiate delle sue abitazioni ottocentesche, sulle quali sbocciano fiori che i campi hanno disdegnato per decenni perché atterriti dalla marcia zoppicante della flotta rossa, oggi mestamente castigata a Kronstadt.
E dove gli amori, le matte fughe, il vento dell'Est che profuma di Baikal e custodisce i misteri dei musi gialli? Sono davvero le nostre paure i cappi peggiori o, piuttosto, l'inedia che ti assale quando non si ha il coraggio di confidare il segreto più audace?
No. Il riscatto da filosofemi melensi e dalle stolide idealizzazioni di fugaci avventure non avverrà tramite un anacronistico confronto su un pullman di linea, chiedendosi perché sia tanto rotonda la pancia di un turista di Ginevra che condanna utopie socialiste e fame nel mondo, mentre osserva dal finestrino i kolchoz in declino, bensì nell'inchiostro di una penna indomita; pronta a fuggire la vuota pienezza di capitali d'appendice, quanto l'ingenuo orgoglio di poter affermare: "io ho visto!", trincerandosi in un effimero inseguimento di ombre, meglio tessute negli arazzi che scaldano il castello di Trakai.
Se non saremo ammaliati a lungo dalle muscolose fontane di una reggia di campagna, se appassiranno presto le civetterie di parchi allestiti per i sollazzi di natiche incipriate, allora una sola immagine esprimerà con schiettezza cosa realmente sia accaduto nello sbadiglio di un'estate: è la candida sabbia delle dune intonse di Nida, la stizzosa aristocrazia di un cespuglio di erbacce grasse, l'odore penetrante di un'indefinita macchia di mare, contesa dall'acre dolcezza di una rosa canina e dalla rassicurante resina di un pino cembro. E ancora, la rabbia ardente delle foglie di betulla a lungo essicate su corpi trasudati, chiusi come polli sacrificali nelle legnose pareti di una banya sovietica, intrisa di aromi passati e invocante energie da remoti universi. Ma nel crogiolo di sapori ed essenze lentamente distillati dall'infuso di un ambiguo peregrinare, che ci condusse persino fra gli obiettivi di un coro di ragazze, convinte di aver ritrovato il messia nella figura svampita di un filosofo senza titoli, sono i mazzi di gladioli stretti in mani rugose davanti alle fermate del metrò a sorprendere il nostro occhio inquieto, sono i chioschi così slavi, disordinati e ricolmi di quisquilie scadute ad entusiasmare la sete di quesiti, il marcire dei tetti simili a pizzi e la ruggine di uno stemma di partito sopravvissuto sulle colonne di un ponte di periferia, alla deriva di Riga.
Eccolo! E' proprio qui il baldacchino sublime che inutilmente abbiamo atteso, l'impetuoso fuoco che anelavamo divampasse fra i tizzoni dell'ultimo treno in partenza sulla Transiberiana, quando alla ricerca di uno sguardo insistente, carpito dal fascino della diversità, si domandava con falsa modestia di varcare il limite. Quello stesso limite che i seguaci di Derscjinsckij non ebbero timore di calpestare fra le mura del carcere politico di Vilnius, intriso del sangue di chi si oppose ai dogmi dell'uguaglianza: le stanze ammutoliscono di orrore, piangono scaglie d'intonaco, ma neppure una doppia porta blindata o lo spettro di superbe divise, impiccate ad ometti luccicanti, riescono ad opporsi alla giustizia dei flash.
Già, non serve allungare il collo sul pontile. Ci si può spingere oltre semplicemente inciampando nella banalità del quotidiano: rovinando a terra, torneremo a chiederci perché siano impressi caratteri cirillici sull'etichetta di una "piva" sgasata, e magari invecchiata ai margini di un'anonima strada di confine. Labile traguardo che rianima il focolare casalingo non appena ci si lascia alle spalle le mille balle di fieno del Meklemburgo, biondi bigodini che invocano una libertà esuberante mai conosciuta dagli abitanti di Eutin o Wismar. Qui, infatti, echeggia ancora il passo severo delle truppe guglielmine, anche se - a ben guardare - l'ultimo soldato ha il volto rugoso e i denti ingialliti di un marinaio che attende nuovi turisti per declamare pregi e virtù di un'epoca intollerante, che aborre i compromessi cattolici, che si vergogna delle ferite della sua città, spogliata dei suoi ondulati palazzi in cotto, eppure incapace di rifiutare le ragioni della loro condanna.
Alla fine non c'è niente di meglio che assaporare lentamente, boccone dopo boccone, un panino al salmone affumicato in un piccolo porto del nord. Perché in omaggio alle raffinatezze gastronomiche, in un paese sfregiato per sempre dalla guerra e macchiato dalla barbarie, la bellezza deve essere centellinata. Ci si illude di poter trovare una certo eccesso di misura che armonizzi le note amare dell'età, ma il mirino del turista, suo malgrado privato dell'onore di vivere il diverso, inquadra esclusivamente le spoglie di secoli affondati, non la loro vivente testimonianza: si aggira in cimiteri dell'umanità come uno sciacallo, isolando un tempietto gotico o un bastione stemmato per equipararli, in assurdi calcoli di prospettiva, ad una gru dei docks mille anni luce lontana dalla sensuale voce di Marlene Dietrich. Eppure il frammento accende l'immaginazione, fende le pigre stratificazioni dell'ottusità quotidiana e libera la mente verso le suggestioni di un passato consolatorio. Forse è proprio questo il segreto di un panino al salmone affumicato: c'è del pesce, a brandelli, si riconoscono le note dolci della cipolla bianca, ma al di là della nobile anonimia dell'insalata, spetta solo alla salsina tartare confondere le asperità di frutti monocordi nel tripudio dei sensi. Così è la vita: di tutto si fa un boccone.
Nessuna sorpresa, dunque, se nell'arco di una notte ci ritroveremo a nuotare nudi in un solitario lago alpino, senza nutrire alcun timore circa il letto che ci dovrà ospitare. Sotto sotto, ne siamo convinti: c'è sempre una via d'uscita, per quanto agli uni paia un regresso alla barbarie, mentre ad altri una stramberia per teste calde. Per quale motivo non possiamo lavarci in acque balsamiche, come fanno le strolaghe? Cosa ci impedisce di orientare il sole quasi fosse un phon a lungo raggio? Il fatto è che siamo sì gente di strada, ma anche viaggiatori abituati a trovare i distributori di benzina ad ogni piè sospinto, incapaci di deviare dalla meta.
Abbiamo molto da imparare dai fannulloni: amano inseguire per un giorno intero le azzurre libellule del Rauschelesee, sino a quando - stremati per una fatica giullaresca - si abbandonano ai capricci del caso, vivendo tale leggerezza con l'impeto eroico dei cavalieri predestinati. Per il fannullone la vita si è trasformata in una perenne vacanza , priva di interrogativi circa il come e il dove. Non ci sono increspature sullo specchio torbido del suo animo, gli oscuri fondali del dubbio paiono assopiti, le lancette dell'orologio conoscono solo i reclami dello stomaco o le avance di una palatchinka al cioccolato. E' l'egoismo dell'innocenza, che crede nell'eternità dell'attimo, benché al di sotto dell'immota quiete bucolica di un bosco austriaco le radici si consumino lentamente, assaporando ogni giorno quanto la morte sia profonda e cieca. La miglior risposta alla sua gratuità consiste nel volgerle le spalle, con la stessa smorfia beffarda di quanti si divertono a fare pipì contro una quercia.
E sotto le foglie secolari di questo saggio albero scaturisce infine la consapevolezza per cui la fuga dagli affetti, serviti fumanti come un punch del "Korsar" sotto l'arco dell'Ermitage pietroburghese, altro non è se non la ricerca del perduto, il cui ironico riflettersi nelle beffe quotidiane alimenta di continuo il passo di chi ha creduto di scorgere, nell'alba nuvolosa di un deserto sottile quanto l'istmo della Prussia teutonica, la ricchezza debordante della povertà assoluta: l'incapacità di scegliere per non rinunciare al possibile.
In questo modo non avremo nulla da rimproverarci e saremo anche in grado di esorcizzare i temibili motti di una stramba vacanza, a lungo insidiata da un annichilente "quickly", tanto quanto da un ridondante "c'est tout finit, mon ami!": arcane formule, o astute alchimie, evocate per trasformare la volontà di un ragazzo in una friabile pera Kaiser. Ah, l'impagabile ironia dell'ossimoro!

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