Ma una volta ancora, in occasione dei 100 anni che il pionieristico ospedale del premio Nobel ha recentemente festeggiato in Gabon, le luci hanno prevalso sulle ombre.
Benché il grande teologo e filosofo alsaziano sia
stato celebrato in ogni modo dal cinema o dalla letteratura, troppo inquietante
resta la somiglianza con i baffi bianchi e l’aria spiritata del terribile
collega interpretato da Vincent Price nel 1971: l’abominevole dottor Phibes. Lui stesso eccellente organista appassionato di Bach, con un dottorato in musica e teologia
(ma tutto lascia supporre possa averne conseguito uno pure in filosofia,
proprio come Schweitzer), tradisce un insano lato doppio: punire quei chirurghi
incompetenti che hanno causato la morte della moglie, ispirandosi alle bibliche
piaghe d’Egitto. “Nessuno di loro si salverà.
Nove eternità per la tua”. Addirittura il gusto della citazione è lo stesso, ma
ogni volta ribaltato in qualcosa che fa del rispetto per la vita, il
principio cardine su cui l’autore delle Strassburger Predigten ha costruito
tutto il suo pensiero, una nuova e truculenta espressione di odio. Schweitzer e
Phibes, insomma, come Dr. Jekyll e Mr. Hide. L’accostamento non è per nulla
peregrino.
Schweitzer si era spento appena
sei anni prima dell’uscita del film: irrimediabilmente lontano dalla piccola Kaysersberg,
che gli aveva dato i natali il 14 gennaio 1875, e lasciando dietro di sé una vita
di sacrifici spesa nella cura dei lebbrosi, dei tubercolotici, dei malati di
malaria e di dissenteria. Di tutti quei terribili mali che ancora affliggevano
la foresta equatoriale, cuore di tenebra dell’Africa, contro cui la sua
anzianità aveva dovuto infine gettare la spugna. Se n’era andato esattamente nel
1965, giusto un anno prima che il governo francese decidesse di ritirare dal
mercato il famoso farmaco battezzato in suo onore: il Lambaréné, dal nome della cittadina gabonese dove il 16 aprile del
1913 aveva deciso d’impiantare il suo ospedale e dare un nuovo senso alla sua
vita. “Qui molti mi possono sostituire
anche meglio – aveva annunciato al direttore della società missionaria di
Parigi, presso la quale si era messo in mente di collaborare sin dai tempi in
cui venne folgorato leggendone gli spaventosi reportage umanitari - laggiù gli uomini mancano. Non posso più
aprire i giornali missionari senza essere preso da rimorsi. Questa sera ho
pensato ancora a lungo, mi sono esaminato sino al profondo del cuore e affermo
che la mia decisione è irrevocabile”.
Un pazzo. Agli occhi dei suoi
contemporanei non poteva apparire altrimenti. Già l’aver scelto di prendere una
seconda laurea in Medicina all’età di 38 anni, nel 1911, era stata una mossa
bizzarra e un po’ azzardata: Schweitzer poteva comunque vantare un curriculum
di tutto rispetto, con all’attivo una cattedra di teologia a Strasburgo, oltre
alla presidenza della facoltà e alla direzione stessa del seminario teologico.
Aveva pubblicato numerose opere musicali, di carattere religioso e teneva ovunque
concerti di successo, grazie al suo innato talento per le composizioni barocche.
Eppure rigettava una sicurezza sociale tanto più difficile da conseguire quanto
più incombeva la guerra fra Francia e Germania, incaponendosi addirittura sul
progetto di aprire un ospedale là dove nessuno riusciva a sopravvivere che per
pochi mesi.
Oltre che d’indubbie capacità
curative, lo “stregone bianco” di Lambaréné disponeva però di un asso nella manica:
il confronto serrato con i popoli della foresta gli aveva permesso di
apprezzare le proprietà terapeutiche della radice dell’iboga, tanto che lui
stesso divenne presto il primo promotore del farmaco anti-affaticante lanciato
nel 1939 e intitolato alla “sua” città. Il Lambaréné
era un preparato a base di radice di Tabernanthe
manii (conteneva circa 0.20
grammi d’estratto di radice per singola tavoletta), assommando le proprietà di
dodici diversi alcaloidi, fra cui l’ibogaina, la tabernanthine, l’ibogamina e
la coronaridina. Un potente mix che rinvigoriva dalla stanchezza, combatteva le
malattie tropicali, la depressione e l’astenia, ma infondeva soprattutto
un’insospettabile forza di cui gli atleti si resero ben presto conto.
Veniva venduto come panacea
contro ogni possibile male, ma voci sempre più insistenti iniziarono a riferire
di effetti collaterali devastanti. Una delle più sinistre fu quella di Haroun
Tazieff, noto geologo francese che pubblicò addirittura un libro sulla sua
esperienza col Lambaréné (“La gouffre de la Pierre Saint-Martin”).
“Quando l’effetto delle tavolette
svaniva, non mi sentivo nient’altro che un miserabile ammasso di carne appeso a
un filo”. Ebbene sì: l’ibogaina riusciva a cancellare ogni segno di fatica,
ma non alimentava il corpo, né tanto meno lo rivitalizzava. Semplicemente non
rendeva percepibile il suo lento ed inevitabile deperimento.
Con la forza morale della sua
missione, le sorprendenti guarigioni e l’adorazione sviluppata dai popoli
tribali nei suoi confronti, l’immagine di Albert Schweitzer e del “suo”
miracoloso Lambaréné indussero a
lasciare per anni gli effetti nocivi del farmaco in secondo piano, nonostante
schiere di atleti mostrassero in Europa manifesti segni di logoramento fisico e
psichico. D’altra parte, se il medico alsaziano avesse avuto tempo
d’interessarsi alle vicende sportive del Vecchio Continente, avrebbe subito
messo in guardia da un uso smodato delle tavolette a base d’ibogaina. In uno
dei suoi numerosi interventi nel dibattito intellettuale del Dopoguerra, aveva infatti
stigmatizzato: “la nostra epoca ha scoperto
come separare il sapere dal pensiero, col risultato che abbiamo davvero una
scienza libera, ma non ci rimane più una scienza che rifletta”.
L’uomo bianco studiava l’indigeno, ne
rubava il sapere ancestrale, ma tutto ciò che riusciva a fare delle sue preziose
conoscenze non era altro fuorché mercificazione. Una pianta sacra, capace di
mettere in contatto ogni essere vivente con la profonda saggezza delle epoche
passate, aveva finito per trasformarsi in Europa in una semplice tavoletta che
dava assuefazione per uso smodato e instillava il primo grave germe del doping
nello sport.
Ad eccezione delle vicissitudini vissute
nel periodo della Prima Guerra Mondiale, quando Albert Schweitzer venne
arrestato in Gabon insieme alla fedelissima moglie Hélène Bresslau (in quanto
cittadini tedeschi, erano sospettati di essere spie del Kaiser), le attenzioni
del medico alsaziano erano sempre e costantemente rivolte all’Africa. La
Svizzera o la Svezia gli conferivano lauree honoris causa e lui si preoccupava
di operare un lebbroso. Lo invitavano ad esibirsi in concerti d’organo sui
palcoscenici più illustri e lui girava il ricavato per ampliare il suo vecchio
ospedale di Lambaréné. Avanti e indietro. Avanti e indietro. In diciannove viaggi
fra il Gabon e l’Europa, Schweitzer riuscì a mettere in piedi una struttura
ospedaliera capace di ospitare oltre 150 pazienti, dando nel frattempo alle
stampe opere filosofiche essenziali nella definizione dei temi morali e
pacifisti del Novecento.
Nel 1952 arrivò addirittura il premio Nobel per la
Pace, che lui prontamente investì nell’inaugurazione del Village de la Lumière (il Villaggio della Luce per i lebbrosi del
Gabon). Per lui, ormai, vita e Africa erano diventati sinonimi: quando morì il
4 settembre del 1965, migliaia di canoe si riversarono sul fiume Ogooué per
rendere omaggio alla sua tomba, ancor oggi fermamente decisa a restare sotto le
palme dell’ospedale Schweitzer. Gli stessi preparativi per festeggiare il
centenario del suo arrivo a Lambaréné, in calendario il 16 aprile del 2013, si
sono svolti come se il medico alsaziano fosse ancora lì a dare ordini a
tutti: non a caso, in quella data, il presidente del Gabon e della Fondazione
Schweitzer hanno inaugurato insieme un nuovo centro ospedaliero universitario da 3
milioni di dollari, destinato a curare Aids e nuove malattie genetiche. Ma
anche l’abominevole dottor Phibes era lì, ad osservare ciascuno null’ombra:
pronto a ricordarci che persino la carità può uccidere, quando finiamo per trasformare i
nostri eroi in meri idoli da incensare.
ALBERT SCHWEITZER'S LIFE
1875: nasce il 14 gennaio a
Kaysersberg, cittadina alsaziana contesa da Francia e Germania
1884: a nove anni sostituisce
l’organista della chiesa luterana di Kaysersberg
1893: inizia gli studi di
teologia e filosofia all’Università di Strasburgo
1899: consegue la laurea in
filosofia con una tesi sul problema della religione in Kant
1902: ottiene la cattedra di
teologia a Strasburgo
1903: è direttore del seminario
teologico di Strasburgo
1904: anno dell’infatuazione per
l’Africa. Legge il bollettino della Società missionaria di Parigi.
1911: consegue la laurea in
medicina, con specializzazione in malattie tropicali
1912: sposa Hélène Bresslau, di
origine ebrea
1913: arriva a Lambaréné (Gabon) a
bordo del piroscafo Europa e, il 16 aprile, apre il primo laboratorio in un
vecchio pollaio
1914: Albert ed Hélène vengono
arrestati come spie tedesche nel territorio dell’Africa equatoriale francese e
sono trattenuti sino al 1918, quando vengono rispediti in Alsazia.
1919: nasce la prima figlia Rhena
e ricomincia a lavorare all’ospedale di Strasburgo
1920: raccoglie fondi in Svezia per
il suo ospedale africano
1921: pubblica il libro di
ricordi africani All’ombra della foresta vergine
1924: torna in Africa al suo
vecchio ospedale, ma non trova che ruderi
1927: dopo febbrili lavori,
inaugura la nuova sede il 21 gennaio
1931: pubblica a Lipsia “La mia
vita e il mio pensiero”
1947: pubblica l’antologia
“Rispetto per la vita”
1952: premio Nobel per la Pace,
in virtù del costante impegno umanitario in Africa. Apre il Village de Lumière
per i malati di lebbra
1958: il 28, il 29 e il 30 aprile
pronuncia i suoi famosi “tre richiami” contro la minaccia atomica a Radio Oslo
1965: muore a Lambaréné il 4
settembre